La prima illusione è che la rete possa creare un modello assimilabile alla democrazia diretta, capace di superare la crisi della democrazia di rappresentanza. Questa idea ha una base di ragionevolezza forte – ed è per questo che ha tanta presa – perché, in fondo, cos’è la democrazia rappresentativa se non un compromesso raggiunto nelle società complesse per sopperire all’impossibilità tecnica di realizzare quella diretta? Ma andando alla radice della questione, la criticità risiede nel suo presupposto: la democrazia, infatti, non è in crisi, ma è di per sé governo della crisi.
Anzi, la tensione continua tra l’azione politica e l’opinione pubblica è un indice di buona salute del sistema – almeno finché una delle due non mira all’annientamento dell’altra – perché è proprio questa frizione a tenere acceso il motore della circolazione delle idee e a frenare il rischio dell’arbitrarietà. In questo caso, quindi, il problema non è la crisi, ma l’idea che questa tensione debba essere superata. E dal momento che, come abbiamo visto, la rete non è per nulla un palazzo di vetro dai meccanismi cristallini e fluidi, questo discorso assume ancora più valore.
D’altronde, l’abilità della politica risiede proprio nel saper gestire richieste spesso in contrasto tra di loro, nel recepire le istanze della maggioranza e delle minoranze dell’opinione pubblica, proporre ricette credibili e operare una sintesi coerente.
La seconda illusione è il principio “uno vale uno”. Abbiamo già visto l’inconsistenza di tale principio, perché se ci muoviamo nell’ambito dell’informazione porre tutti sullo stesso piano equivale a vanificare esperienze, professionalità e competenze, sacrificando l’attendibilità e spesso la veridicità stessa delle notizie divulgate: il principio “uno vale uno” rappresenta l’ambiente ideale per far proliferare il fenomeno della post-verità. Ma c’e un ulteriore aspetto: se per uscire dalle procedure democratiche accusate di favorire la “tirannia della maggioranza” si sceglie di ricorrere a strategie di partecipazione extraelettorale, il rischio è che la decisione sia preda di una minoranza, che sia quella dalla voce più forte, oppure quella più colta, o quella che ha maggiore disponibilità di tempo, oppure più semplicemente quella che ha più facile accesso alla comunicazione.
La terza illusione è considerare la trasparenza, che la rete consente, come garanzia di chiara attribuzione di responsabilità. In realtà, la responsabilità diffusa corre il rischio di diventare un’irresponsabilità di fatto, in maniera simile a ciò che avviene sul terreno della diffusione virale delle informazioni, dove è potenzialmente sempre più difficile risalire alle fonti e distinguere il vero dal falso. Inoltre, la trasparenza, anziché essere il requisito per restituire potere ai cittadini, può portare paradossalmente alla paralisi decisionale.
La quarta illusione è l’idea che la maggiore partecipazione che la rete consente restituisca il potere al popolo. Quello che in realtà cresce e solo il potere negativo, quello di controllo, la pars destruens dell’opinione pubblica, mentre quello di espressione e azione politica, che per sua natura rivendica il fare, si è diluito nella destrutturazione dell’intermediazione politica tradizionalmente esercitata dai partiti.
Qui arriviamo a un punto cruciale. Se il digitale rappresenta un’opportunità e la tecnologia può migliorare la partecipazione politica, se la rete offre un’enorme potenzialità di documentazione e approfondimento, il potere presuppone il “fare” che è possibile solo se dall’online si passa all’offline, dall’immateriale al reale, attraverso la re-intermediazione operata dai partiti. La politica non è fatta solo di condivisione o disapprovazione, ma di
argomentazioni e confronto. Non è possibile relegare tutto a un sì o un no, a un like o a un dislike, soprattutto quando l’oggetto è una tematica complessa o controversa. Cosi come non possono essere proposte soluzioni semplicistiche, allo stesso modo nemmeno i metodi devono essere sbrigativi e superficiali, perché è vero che il digitale aumenta la possibilità di apprendimento e informazione, ma è ancora più vero che tra porre una questione e decidere sulla stessa vi è tutta una serie di passaggi intermedi imprescindibili di approfondimento, confronto e solo
alla fine di eventuale approvazione. Davvero pensiamo che tutto ciò possa ridursi al singolo click di singoli utenti? Evidentemente no, perciò servono i corpi intermedi e, dal momento che stiamo parlando di politica, ecco perché le formazioni politiche sono ancora necessarie.
Com’è noto, i partiti servono innanzitutto a rappresentare gli interessi larghi della comunità, non sono solo soggetti che dettano la linea, ma rappresentano soprattutto uno spazio pubblico in cui confluiscono in maniera propositiva le istanze dei cittadini e il desiderio di partecipazione. Se nello scenario attuale, caratterizzato dall’estenuante precarietà, materiale ed economica, dalle lacerazioni che minacciano il tessuto sociale e dalla crisi di alcuni modelli, le categorie novecentesche risultano ormai obsolete, non riuscendo a garantire né una chiave di lettura dei bisogni delle persone, né a fornire delle coordinate affidabili nel panorama politico, tutto ciò non è comunque sufficiente per considerare l’esperienza dei partiti conclusa. Anzi, di fronte alla richiesta di nuovi punti di riferimento politico, urge ripensare le strutture partitiche per adattarle ai tempi e alle nuove sfide. E proprio la rete offre modelli organizzativi nuovi, in grado di gestire la complessità della contemporaneità.