Il sequestro dell’uomo che poteva cambiare il corso della politica italiana, così come la strage compiuta della sua scorta e la “consegna” del corpo senza vita in via Caetani il 9 maggio 1978, sono tutte parti complesse di un quadro a oggi, dopo 39 anni di distanza dai fatti, incompleto.
Esistono fatti ed elementi interconessi tra loro (come a esempio il ruolo internazionale giocato il 16 marzo ’78 e i 55 giorni seguenti) i quali nel loro insieme sono certo più rilevanti della figura di Giustino De Vuono sulla quale sin dal maggio scorso Formiche.net ha puntato indagini e ricerche svelando fatti concreti, incluso il suo volto presente in via Fani. Non necessariamente De Vuono avrebbe partecipato all’azione del sequestro, bastava essere lì per supervisionare: un ruolo appunto. L’ex legionario prestato alla criminalità e all’estremismo politico (che nel 1975 partecipò insieme a elementi di Autonomia Operaia al sequestro dell’ingegner Carlo Saronio) è un grosso nodo sul quale si stringono più dinamiche: a partire da via Fani – dove un testimone, Rodolfo Valentino, lo riconosce – passando per via Gradoli e finendo in via Caetani dove il cerchio si chiude. Sciogliendolo, l’intero bandolo andrebbe a unire più filamenti.
– Esiste un rapporto di polizia giudiziaria inviato alla Procura generale che indicava Giustino De Vuono come l’assassino di Moro. Lo citavano i giornali del tempo in modo dettagliato: quelle notizie che soltanto inquirenti o forze dell’ordine possono rivelare ai cronisti. Perché questo rapporto non è agli atti tutti della inchiesta Moro?
– Durante i 55 giorni, un altro testimone riconobbe De Vuono a bordo di una R4 insieme a una donna (la stessa R4 di via Caetani?). Da quella testimonianza, come racconta tra le altre cose l’inchiesta “Morte di un presidente”, emerge un fotofit con il ritratto di Giustino De Vuono. Perché non ci fu alcun raffronto fra quel fotofit, l’altro dell’uomo e della donna scesi dalla R4 alle 8,10 della mattina del 9 maggio, sparito anch’esso dagli atti, con suoi ritratti e foto diffusi e già allora disponibili? Per compiere un raffronto non servivano particolari tecniche allora non disponibili.
– Un addetto alle pulizie riconosce nel palazzo di via Gradoli 96 un uomo “in divisa da spazzino” fortemente rassomigliante allo “scotennato”. Ne dà conto un libro edito nel 1984 “Operazione Moro” dell’avvocato Giovanni Zupo e di V. Marini Recchia. Di quel ritratto cosa ne è stato, quali le conclusioni investigative?
– Tra gli elementi che confermavano in De Vuono l’assassino di Moro (quindi via Caetani), gli investigatori dell’epoca indicarono una particolare tecnica di sparo a raggera attorno al cuore, tecnica da lui appresa nella legione straniera. Don Fabio Fabbri, il braccio destro del cappellano delle carceri Cesare Curioni, nel corso del 2016 in Commissione Moro, ha ricordato questa stessa tecnica come elemento che aveva dato la certezza a don Curioni dell’identità dell’omicida calabrese. Della tecnica ne mostra le evidenze sull’autopsia sempre l’inchiesta “Morte di un Presidente”. Così don Fabbri alla Commissione: “Io ero lì con lui, come sempre, le guardammo insieme (le foto della perizia nda.), in tutto erano 5, 6, forse 8. Si vedeva in modo chiaro che sei colpi erano stati sparati attorno al cuore di Moro, fotografato separatamente. Curioni ebbe un sussulto, ‘io conosco il killer, è un professionista, quella è la sua firma”.
– Nel libro “La Borsa di Moro” (Iuppiter edizioni, 2016) Marcello Altamura riferisce in modo certosino della testimonianza di Lina Cinzia De Andreis che fa un identitkit di un uomo fermo davanti al bar Olivetti mentre guarda un orologio e la cui fisionomia richiama proprio De Vuono: “Alto e con corporatura massiccia, occhi a mandorla molto grandi e neri, labbra carnose, basettoni, un naso grosso e pronunciato e orecchie sporgenti. In testa, la coppola di pelle nera con la visiera alzata.” Identikit presente negli atti Moro ma ignorato.
– Perché le foto di via Fani dei Gualerzi pubblicate da Formiche.net per la prima volta dopo 39 anni, foto che ritraevano De Vuono a pochi metri di distanza dal luogo dove era con ogni probabilità appostato anche Antonio Nirta, il boss di San Luca, sono sparite per 39 anni dagli atti?
– Perché i Carabinieri consegnano una informativa secretata sulla morte di De Vuono alla Commissione Moro quando un certificato di decesso ufficiale si sarebbe potuto ottenere così come da noi ottenuto dopo 39 anni? E dov’è – se esiste – la tomba dell’ex criminale la cui registrazione stando alle nostre indagini non compare nei luoghi dove sarebbe deputato?
– Perché Mino Pecorelli fa riferimento a De Vuono in un suo articolo dal titolo “Vergogna Buffoni” pubblicato nel gennaio ’79 sulla rivista da lui diretta OP: “Non diremo che il legionario si chiama “De” e il macellaio Maurizio”?
– Perché il 14 maggio 1978 persino il quotidiano spagnolo El País parlò dell’ex legionario come del presunto esecutore materiale dell’uccisione di Aldo Moro secondo fonti ufficiali?
Sono le domande che a forza emergono e che puntellano il caso Moro tutto. Le domande, come scrisse 40 anni fa Pier Paolo Pasolini sul Corriere della Sera riguardanti altri tragici fatti di questa nostra Repubblica, le cui risposte “gli italiani vogliono consapevolmente sapere”.