Le cronache portano alla ribalta il “do ut des” di Stato, con un scambio flessibilità-migranti tra le istituzioni comunitarie e l’Italia.
In attesa che una qualche Procura di periferia in cerca di notorietà apra un fascicolo a carico dei soliti ignoti, in questo caso più che noti, credo sia interessante avanzare una qualche riflessione sulla convenienza del baratto e su come il nostro Paese vivA quella che ormai è la questione europea.
Abbiamo avuto in questi ultimi anni migranti a volontà, ma di flessibilità sui conti pubblici, francamente, non si è vista neanche l’ombra. Se poi qualcuno intende con ciò l’aver avuto una qualche deroga per lo shopping elettorale del governo Renzi, tutte garantite dalle cosiddette clausole di salvaguardia, ben presto dovrà ricredersi, perché, tutt’al più, si è trattato di una dilazione del pagamento ed il conto, come vedremo con la prossima finanziaria, sarà assai salato.
Quindi, stante così le cose, possiamo dire che, se scambio c’è stato, non è stato un grande affare, né per convenienza né per equità.
In questo contesto, l’epocale fenomeno immigratorio, è destinato a far deflagrare tante ipocrisie e contraddizioni. Non solo in casa nostra, dove si scopriranno a sempre più alto livello gli altarini che si celano dietro un certo falso umanitarismo, ma anche e soprattutto in Europa, dove la solidarietà, l’accoglienza, l’integrazione sono principi buoni solo nei giorni festivi e dove una certa retorica europeista, vedi il Macron ossannato dai mainstream nostrani, si scioglie come neve al sole.
La verità è che l’irresponsabilità di cui è intriso il sistema politico ed istituzionale, anche grazie ai moralismi ideologici e di comodo di certa intellighenzia nostrana – per non parlare di media e salotti – è tale da non saper più immaginare, per interesse o per incapacità, un sano confronto con le istituzioni europee su ogni questione e tema.
Il nostro stare in Europa e il nostro vivere la dimensione comunitaria in questi anni sono stati quanto di peggio ha prodotto la Seconda Repubblica. L’opzione europea non fu figlia di un dogma a cui aderire fideisticamente – un po’ come fece negli anni ’90 una certa sinistra orfana dell’ideologia comunista – ma una scelta consapevole per un domani migliore per i popoli. Oggi ciò è profondamente in discussione.
E per questo rilegare la questione europea ad un mero scontro tra l’alternativa a un ripiegamento nazionale, privo di respiro ed antistorico, ed un europeismo di fedeltà che presuppone lo status quo delle politiche economiche e sociali, e non solo, di Bruxelles, è quanto di più tafazzista ci possa essere.
Eppure è questo lo scontro di comodo che ci vogliono rappresentare e che ci porterà dritti a sbattere. Serve, invece, sviluppare un’opzione euro-revisionista che, per carità, non è né facile né scontata.
È un percorso difficile ma lineare, che respinge tanto l’irresponsabilità dei cosiddetti partiti europeisti, per cui l’Europa è un dogma e nulla nella sostanza si può discutere e cambiare, che quella dei partiti anti-sistema, la cui prospettiva sfascista rimanda a logiche che credevamo per sempre archiviate con la fine del secondo conflitto mondiale.
Quando capiremo che la logica del tifo e dello scontro non fa certo il nostro gioco, tanto in casa quanto fuori, se non sarà troppo tardi, forse, avremmo qualche chance in più di farcela come Italia e come Europa. Ma leggendo le boutade di questi giorni non c’è granché da sperare.