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Noterelle storiche sui sistemi elettorali

sindacati

Poiché credo che, alla fine della giostra, la primavera prossima gli italiani andranno a votare con il Consultellum, ancorché riveduto e corretto, propongo al lettore queste brevi note di carattere storico sui sistemi elettorali in Inghilterra e in Francia.

Suddito della regina Vittoria era uno degli apostoli più agguerriti della rappresentanza proporzionale, John Stuart Mill: “Uomo per uomo, la minoranza deve essere rappresentata per intero così come accade per la maggioranza. Se questo manca il governo non postula l’eguaglianza, ma il privilegio e l’ineguaglianza”. Quando il filosofo di Pentonville diede alle stampe il suo libro più celebre, Considerazioni sul Governo Rappresentativo (1861), il proporzionalismo era ancora alle sue battute iniziali e aveva conosciuto una compiuta teoria solo da pochi anni, per merito dell’avvocato inglese Thomas Hare, che aveva pubblicato nel 1859 la prima edizione del Treatise on the Election of Representatives, Parliamentary and Municipal.

Mill e di Hare avevano una chiara percezione dei problemi posti dalla rivoluzione industriale e dalla conseguente urbanizzazzione. Due fenomeni che avevano provocato un vero e proprio terremoto demografico, ormai in stridente contrasto con l’ordinamento della Camera dei Comuni, dove continuavano ad avere il diritto di eleggere deputati i “rotten boroughs” (borghi putridi), piccoli centri rurali controllati dall’aristocrazia fondiaria, a discapito di grandi città come Birmingham e Manchester, prive di rappresentanza (il più famoso dei borghi putridi, Old Sarum, con sei elettori eleggeva due parlamentari). Centri rurali di dimensioni più vaste erano invece i “pocket boroughs” (borghi tascabili), così chiamati perché letteralmente “nelle tasche” dei latifondisti che, grazie anche al voto palese, non incontravano difficoltà nel far eleggere i propri protetti.

Il primo progetto di riforma del sistema elettorale britannico fu presentato da whigs e radicali nel marzo 1831, sotto la spinta del movimento cartista e del Luglio francese. Esso divenne legge (Act) nel 1832. Abolì i borghi putridi, stabilì requisiti di voto uniformi per i “boroughs” e garantì una rappresentanza alle città più popolose. Nella seconda metà del secolo, tre Acts (nel 1867, 1872 e 1884) introdussero il voto segreto e abbassarono i requisiti patrimoniali del suffragio, allargandolo alla borghesia cittadina e ai primi nuclei di proletariato urbano.

Il Redistribution of Seats Act (1885), infine, ridisegnò i confini delle contee (rimasti immutati dal 1660), sottraendo alla Corona la facoltà di fissare discrezionalmente il numero dei parlamentari, e generalizzò l’istituto del collegio uninominale. Veniva così sancito quel principio maggioritario nel mirino dei fautori del metodo proporzionale, i quali predicavano la necessità -che divenne la bandiera della loro battaglia- di distinguere tra voto deliberativo del Parlamento (che ovviamente richiedeva una maggioranza) e voto elettivo (che richiedeva invece una sua composizione proporzionale).

Come ha sottolineato Daniele Maglie in un saggio di straordinaria erudizione, uno dei dogmi della Rivoluzione francese era stato proprio la proporzionale (Le origini del movimento proporzionalista in Italia e in Europa, Dipartimento di Scienze politiche dell’Università degli studi Roma Tre, luglio 2014, disponibile in pdf). Due suoi protagonisti, l’abate Sieyés e il conte di Mirabeau, ne erano stati gli alfieri più convinti. La Costituzione del 1791 inaugurò tuttavia un complicato meccanismo, in base al quale le assemblee primarie dei cittadini nominavano gli elettori, i quali a loro volta dovevano scegliere a maggioranza assoluta i 745 membri dell’organismo legislativo.

Non un vero e proprio sistema proporzionale, insomma, ma “majority” (a doppio turno) a tutto tondo. La Costituzione giacobina conservò questo impianto maggioritario, sia pure corretto con l’elezione diretta e il suffragio universale maschile. Del resto il suo nume tutelare, Jean-Jacques Rousseau, partendo da John Locke riteneva che “il n’y a qu’une seule loi qui par sa nature exige un consentement unanime. C’est le pacte social […]”. Inoltre, “la voix du plus grand nombre oblige toujours tous les autres; c’est une suite du contract même…” (Du contract social, 1762). Per altro verso, il filosofo ginevrino cerca di superare la contraddizione che avverte in tali proposizioni spiegando perché, nel subire scelte cui non ha partecipato, il cittadino non è meno libero. E la supera sulla base del celebre sofisma che identifica volontà generale e volontà di ciascuno, in virtù del quale anche la minoranza in realtà “vuole” la volontà generale e, quindi, acconsente a ciò che decide la maggioranza (se vota in modo diverso vuol dire che s’inganna). In tal modo, la divisione fra maggioranza e minoranza diventa apparente. Nella concezione rousseauiana è del tutto assente, pertanto, ogni preoccupazione per i diritti delle minoranze. E anche se lo stesso Rousseau propone un temperamento ragionevole della regola maggioritaria, resta il fatto che le basi concettuali della sua teoria saranno successivamente utilizzate per giustificare prima il rigore giacobino poi il radicalismo democratico.


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