Dice Mark Twain che: “La gente di solito usa le statistiche come un ubriaco usa i lampioni: più per sostegno che per vederci chiaro”. Noi, invece, dobbiamo usare le statistiche per vederci chiaro, per comprendere meglio il rapporto tra giovani, pensioni e mercato del lavoro in Italia. Questo tema è, infatti, al centro di una straordinaria evoluzione, si potrebbe addirittura dire rivoluzione, che va affrontata con una strategia coraggiosa e innovativa. Il punto di fondo è che quando si parla di pensioni viene naturale pensare agli anziani, non ai giovani. Abbiamo, invece, bisogno di una strategia e di un modello di welfare sociale e pensionistico pensato a partire dalle giovani generazioni.
LE DISUGUAGLIANZE GENERAZIONALI
Sono state otto, dalla metà degli anni Novanta a oggi, le riforme del sistema pensionistico italiano, segno dell’importanza del problema; della difficoltà ad affrontarlo a causa di resistenze di varia natura, ma anche della rapida e tumultuosa evoluzione sociale che ci ha coinvolto in questi anni. Si pensi solo alla demografia e ai dati straordinariamente importanti e interessanti che essa ci offre, come la crescita dell’attesa di vita, la scarsa natalità e il ritardato ingresso nel mercato del lavoro. Se, da un lato, il nostro sistema previdenziale ha aumentato il suo grado di sostenibilità, dall’altro, a pagarne le conseguenze sono i millennials, i giovani nati tra il 1980 e il 2000. È come se si fosse attuato un circolo vizioso, all’interno del quale la soluzione al problema diventa problema stesso per le generazioni successive. Si pensi all’introduzione del calcolo contributivo delle pensioni, che crea una connessione obbligatoria tra contributi versati e trattamento pensionistico: garantisce equità in un sistema lavorativo stabile, ma rischia di diventare un ostacolo per chi ha iniziato a lavorare dopo la metà degli anni Novanta, a dimostrazione che il problema risiede in un mercato del lavoro sregolato e fortemente colpito dalla crisi economica. Infatti, la discontinuità delle carriere lavorative, i buchi occupazionali e l’ingresso ritardato nel mondo del lavoro creano una vera disuguaglianza generazionale.
Uno squilibrio che nell’immediato si riflette nella sperequazione esistente tra spesa pensionistica e investimenti per l’istruzione, con un rapporto 4 a 1: secondo i dati Istat e Ocse nel nostro Paese la spesa per pensioni ammonta nel 2016 al 17% del Pil contro il 4,1% dell’istruzione.
A ciò si affianca il progressivo aumento dell’età dell’indipendenza economica. “Se, cioè, un giovane di vent’anni nel 2004, per raggiungere l’indipendenza, doveva scavalcare un ‘muro’ di 1 metro, nel 2030 quel muro sarà alto 3 metri e dunque invalicabile. E, lo stesso giovane, se nel 2004 aveva impiegato 10 anni per costruirsi una vita autonoma, nel 2020 ne impiegherà 18, e nel 2030 addirittura 28: diventerebbe, in sostanza, “grande” a cinquant’anni” [Fondazione Bruno Visentini, “Rapporto 2017”].
Due ulteriori statistiche aiutano a completare il quadro descrittivo che abbiamo delineato finora: nel 2016, in Italia, i cosiddetti neet – i giovani che non studiano, non lavorano e non sono impegnati in percorsi formativi – sono il 24,2% del totale, contro il 14,2 della media europea [Ocse, 2016]. Portare questo dato al livello di quello tedesco (8,8%) permetterebbe all’Italia di avere un aumento del Pil dell’8,4%. Su questo punto c’è un’inversione di tendenza che fa ben sperare. Nell’anno accademico 2016/2017 il numero di immatricolazioni nell’università italiana è cresciuto del 4,3% rispetto all’anno precedente.
LE RISPOSTE POSSIBILI
È in questo contesto che nasce la proposta di cosiddetta fiscalizzazione a fine contributivo degli anni di studio universitario. Siamo chiamati, infatti, a dare risposte che non tornino ad alterare l’equilibrio del sistema pensionistico, ma, al tempo stesso, non compromettano i principi di solidarietà e uguaglianza sanciti negli articoli 2 e 3 della nostra Costituzione. Va in questa direzione la flessibilità in uscita che personalmente ho sostenuto con una proposta di legge, assieme a Cesare Damiano, che fortunatamente è diventata la base di riferimento per la costruzione dell’Ape. Se vogliamo mantenere un sistema dignitoso di welfare, in un quadro di crescita economica comunque più contenuto del passato, dobbiamo definitivamente accettare l’idea che lo Stato da solo non sarà in condizioni di garantire l’insieme delle tutele e delle prestazioni. Si pensi al ruolo che possono svolgere a questo proposito i fondi pensione, come soggetti protagonisti, non solo come stiamo favorendo di interventi in economia reale, ma anche come portatori di una nuova idea di welfare sociale esteso. Il patrimonio che hanno accumulato ammonta a 230 miliardi di euro, tra fondi pensione e casse di previdenza. I margini, quindi, per un’idea di privato-sociale che sostenga welfare accanto all’intervento pubblico è possibile. La risposta sta in due scelte.
La prima: favorire un’integrazione esplicita e organica tra pubblico e privato. L’universalità del welfare non coincide con la sola gestione pubblica. Si pensi, ad esempio, ai fondi pensione integrativi e all’urgenza di diffonderli, con un forte sistema incentivante, soprattutto per i giovani, che, per ragioni culturali e di disponibilità economiche, sono i meno propensi ad aderirvi. Una propensione che potrebbe essere incentivata attraverso la costituzione di un fondo di previdenza complementare destinato ai lavoratori atipici, non iscritti a un ordine professionale, che versano i contributi nella Gestione separata Inps. In questo caso, potrebbe essere studiato un sistema, simile a quello della rivalsa del 4% per la contribuzione obbligatoria, che instaurerebbe un meccanismo di solidarietà tra committente e lavoratore.
La seconda: avviare una coraggiosa riforma del sistema fiscale a cominciare dalle tax expenditures. 700 voci e circa 250 miliardi di detrazioni e deduzioni a disposizione dei cittadini, che sono figlie di un mercato del lavoro e di una domanda sociale ben diversa dalle nuove, attuali, esigenze.
Ci sono poi leve, sulle quali agire da subito, di natura economica, sociale e fiscale che possono portare a un intervento organico capace di inserire la disuguaglianza pensionistica all’interno della più ampia “questione giovanile” con un percorso di misure proporzionate e finalizzate. Le direttrici sono molte e mi limito ad elencarne alcune: la fiscalizzazione dei percorsi di studio, che ho già ricordato prima, la decontribuzione per i nuovi assunti, i percorsi di solidarietà intergenerazionale, le esperienze collettive di tutele allargate.
L’IMPORTANZA DELLA FORMAZIONE
L’ingresso posticipato dei giovani nel mondo del lavoro e le carriere lavorative intermittenti, acuite dalla crisi economica, depauperizzano il montante contributivo sul quale, al raggiungimento dell’età pensionabile, sarà calcolato l’assegno mensile. È da qui che nasce l’esigenza di individuare un meccanismo che permetta ai giovani di oggi di avere a fine carriera pensioni capaci di garantire una vita dignitosa. Sono diverse le proposte arrivate in questi mesi sul tavolo aperto tra sindacati e ministero del Lavoro. Si tratta di proposte interessanti e sulle quali è necessario allargare la riflessione e il confronto – penso a quella cristallizzata in un progetto di legge dai colleghi Damiano e Gnecchi – ma che rischiano di spostare in là il problema. L’istituzione di una pensione di base che andrebbe a integrare, al raggiungimento dell’età pensionabile, quella maturata dal lavoratore non risponde al complesso delle criticità della cosiddetta “questione giovanile”. Non consentono, ad esempio, né di ridurre il numero di neet né di incentivare la formazione universitaria. Per questo, ritengo che prevedere una contribuzione gratuita fissa per gli studenti che completano entro la durata legale il proprio percorso di studi sia una soluzione immediata ed efficace.
Allo stato si tratta ancora solo di un’idea, metà obiettivo, metà provocazione. Sono molti, infatti, i problemi di merito da affrontare per poter parlare di proposta, ma proviamoci. Il primo sono i costi. Va quantificato l’impegno finanziario, per farlo bisogna definire gli ambiti e i confini (e qui c’è il delicato problema della retroattività che è molto difficile proporre, anche se qualcuno avanza questa ipotesi anche con una differenziazione di oneri a carico degli interessati). Apriamo un tavolo, perché a breve saremo chiamati a redigere la legge di bilancio, che rappresenta lo sbocco naturale dove tentare di prevedere un intervento di questa portata, che avrebbe il vantaggio di andare a regime in pochi anni. Ipotizzando di applicare la misura agli immatricolati del prossimo anno accademico, i primi contributi sarebbero versati già tra tre anni.
Stranamente, non me lo aspettavo, accanto ai consensi, ho ricevuto molte critiche da persone che hanno pagato il riscatto, perché considerano questa proposta discriminatoria. È un errore, non solo dal punto di vista della solidarietà intergenerazionale, ma anche da un punto di vista economico-sociale. Infatti, il significato culturale di questa proposta è quello di affermare che il lavoro, la vita lavorativa, la carriera, iniziano prima del giorno, spesso ipotetico – in questa fase storica dei nostri giorni – del primo stipendio. Se abbiamo a cuore la dignità del lavoro, nella sua accezione più ampia, direi antropologica, questa proposta va in questa direzione. In essa, poi, vi è anche una conseguenza concreta, l’incentivazione a iscriversi all’università e a laurearsi in tempi brevi.
È poi necessario studiare misure che favoriscano l’ingresso e la permanenza dei millennials nel mondo del lavoro, mettendo a sistema le iniziative avviate dal governo Renzi con il jobs act. Si risponderebbe così a una duplice criticità: l’ingresso ritardato e l’intermittenza delle carriere lavorative. Nei mesi scorsi lo stesso presidente Inps, Tito Boeri, ha ricordato che gli sgravi contributivi introdotti nel 2014 hanno favorito la stabilizzazione di oltre 3 milioni di contratti, garantendo alla nuova platea di lavoratori una sfera multidimensionale di diritti (malattia, ferie, maternità ecc.). Si tratterebbe di favorire un meccanismo di rimodulazione della contribuzione che tenga conto della maturità fiscale dei lavoratori, riequilibrando la disparità figli/genitori.
UNA NUOVA SOLIDARIETÁ
Perché questo sistema integrato funzioni, è necessario favorire una cultura della redistribuzione solidaristica tra le generazioni, facendo comprendere che le misure di riequilibrio pensionistico non possono sempre essere volte a tutelare i diritti acquisiti. Nonostante il passaggio dal retributivo al contributivo, il sistema pensionistico italiano resta basato sul principio di ripartizione. Ciò vuol dire che le pensioni di oggi sono pagate con i contributi di chi svolge un’attività lavorativa. È questo meccanismo a rendere imprescindibile uno strumento di solidarietà intergenerazionale. In tal senso, solo a titolo esemplificativo, il contributo di solidarietà richiesto alle cosiddette pensioni d’oro – è necessario stabilire con coerenza e coraggio quali sono i criteri che determino questo limite (francamente 3mila euro lordi, importo di cui si è parlato, non è una pensione da ricchi!) – può diventare uno strumento di giustizia sociale a favore dei giovani, rispettando così anche la sentenza della Corte Costituzionale che lo ha considerato coerente solo se destinato a obiettivi predeterminati e limitati nel tempo. È da qui, da un terreno che inevitabilmente guarda al futuro e alla nostra idea di programmazione sociale, che può ripartire un patto generazionale fondato sulla solidarietà e l’uguaglianza.