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Perché il welfare aziendale è una novità da incoraggiare

welfare, sentenza, corte costituzionale

Cresce il numero delle aziende che ricorrono al welfare aziendale. E la novità consiste nel fatto che accanto a nomi blasonati, cominciano a farsi largo anche piccole e medie imprese. Così ai vari Luxottica, Unicredit, Mediolanum, Carrefour, Pirelli, Cucinelli, Hera, Credit Agricole, ecc. troviamo imprese decisamente più piccole che hanno già realizzato un proprio piano di welfare aziendale, si accingono a farlo o si preparano a partecipare ad un programma di welfare ‘di rete’

L’approccio delle pmi a questo mondo è stato oggettivamente lento, a parte qualche ‘pioniere’. Statisticamente, in base alle ultime ricerche di mercato, il 47,6% delle imprese ha già un piano di welfare e fra queste prevalgono le grandi e medie aziende (67,6%). Tuttavia se ci si concentra nell’ambito delle imprese che hanno intenzione di sviluppare un progetto di welfare aziendale entro due anni (il 43,5%) i rapporti di forza cambiano e prevalgono le pmi, con circa il 60% e una crescita di oltre 20 punti. Certamente a sostegno della diffusione di questo fenomeno ha concorso la legge di stabilità 2017, che ha reso questi ‘benefit’ esenti dalla tassazione sul reddito.

Per completare l’analisi del welfare aziendale vano esaminate le scelte praticate dal lavoratore. Ai primi posti vi sono i contributi alle forme pensionistiche complementari o alla salute. Più in dettaglio, i lavoratori apprezzano particolarmente l’assistenza sanitaria (un gradimento del 75,9% e che tende ad aumentare al crescere dell’età, raggiungendo l’86,5% per chi ha 45-54 anni). Seguono i servizi per il tempo libero (piacciono al 72,8% e con il picco di soddisfazione massima per chi ha 35-45 anni con l’81%) e sulla stessa linea, quelli previdenziali (al 71,5% e fino al 78,6% per chi ha 55-64 anni). Tra i più richiesti, ancora, ci sono la maternità (integrazione al trattamento, buono nascita, formazione per reinserimento) con il 70,9% (81,5% da parte delle donne con figli) e la mobilità con il 70,3% (al 90,9% tra i più giovani).

Dall’analisi emerge chiaramente che si tratta di servizi ‘sociali’ erogati dall’azienda che vanno evidentemente a ‘sommarsi’ a quelli pubblici, divenuti con il tempo (o considerati tali) meno efficienti, più costosi, di più difficile fruizione. Potremo dire, di conseguenza, che l’offerta di questo genere di servizi supera il loro valore intrinseco, di mercato, perché integra, completa (e migliora) l’erogazione pubblica del servizio sociale pagato dalla collettività; basti pensare alla sanità o alla previdenza. Se tale assunto è corretto, il sostegno fiscale dello Stato al welfare aziendale genera un circolo virtuoso, perché migliora il livello di benessere individuale del lavoratore e, contemporaneamente, stimola l’indotto del territorio grazie alle convenzioni che le aziende stipulano per erogare i servizi stessi (centri diagnostici, laboratori, centri sportivi, ecc.)

Questo effetto moltiplicatore può essere potenziato agevolando il ‘welfare aziendale di rete’, cioè favorendo accordi a livello territoriale fra piccole e grandi aziende per la messa in comune dei benefit assegnati ai dipendenti sotto forma di welfare aziendale. Si tratta, insomma, di ‘fare rete’ e incentivare la formazione di network di servizi da condividere fra le pmi. In questo modo si riequilibrano i rapporti fra aziende di diversa dimensione rendendo più facile la partecipazione in ambito territoriale. Attraverso questa piattaforma, le aziende potranno gestire le proprie prestazioni di welfare e beneficiare delle convenzioni siglate con alcuni partner per la fornitura di servizi a condizioni economiche vantaggiose. Recenti, positive esperienze a livello Regionale e provinciale che hanno visto protagoniste anche le associazioni datoriali, indicano che questa è la strada giusta da seguire.

Non va sottovalutato, infine, un altro handicap che rende più ardua la via del welfare aziendale alla piccola e media impresa: la mancanza di manager nei ruoli apicali e decisionali. La progettazione e l’implementazione di un piano di welfare aziendale non è alla portata di tutti. Sono richieste conoscenze tecniche ben precise degli ambiti normativi e di quelli fiscali. Inoltre l’offerta di servizi va, in qualche modo, resa omogenea per renderla compatibile con le esigenze di lavoratori di diversa estrazione sociale e di differenti età. Ed è il manager deputato a integrare, in azienda, tale offerta di servizi esaltandone la funzione di ‘fidelizzazione’ del lavoratore stesso. Caratteristica del welfare aziendale, infatti, è anche quella di migliorare il clima aziendale ponendo al centro dell’attenzione la ‘risorsa umana’. L’azienda che investe nel welfare, infatti, ha una chance in più da far valere sul tavolo delle relazioni industriali. Ed è compito del manager mantenere aperto e costruttivo il dialogo con le controparti sindacali e le rappresentanze dei lavoratori. Tutte competenze proprie del manager, ma questa figura professionale è spesso assente nelle pmi. Una carenza ‘storica’ per l’Italia, che penalizza lo sviluppo produttivo e dimensionale di questa tipologia di aziende.

Da tempo, come Cida, sosteniamo la necessità di favorire l’ingresso dei manager nelle pmi. Magari ‘scardinando’ la ritrosia degli azionisti con qualche forma di incentivo, o favorendo le occasioni di dialogo fra imprenditori e manager. Il welfare aziendale è un ottimo terreno di confronto.



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