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Tutte le schizofrenie di Matteo Renzi su conti Ue e Fiscal compact

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Le proposte di politica economica contenute nel libro di Renzi aprono un serio problema al governo Gentiloni e le dichiarazioni del ministro dell’economia Pier Carlo Padoan lo confermano. Il governo infatti si preparava – o si prepara – a una negoziazione, non facilissima, ma nemmeno impossibile, con la Commissione europea sul bilancio dello Stato per il 2018 basata sull’idea, come in tutti questi anni, di chiedere di potere rallentare la riduzione del deficit rispetto alle richieste di Bruxelles. Al cammino suggerito dall’Europa, il governo avrebbe probabilmente controproposto una riduzione molto più modesta. Questo gli avrebbe consentito di evitare, nell’anno delle elezioni politiche, di fare dei tagli destinati a suscitare reazioni politiche troppo forti.

Renzi, che pure per tre anni, da presidente del Consiglio, ha seguito esattamente questa strategia, anche se condendola di giudizi inutilmente polemici con la “burocrazia europea”, propone, invece, uno scenario completamente diverso, anche se non precisa se esso dovrebbe applicarsi alla prossima legislatura o dovrebbe cominciare fin dal bilancio di quest’anno.

Qual è la proposta di Renzi? Per fare ripartire l’Italia – dice – non basta qualche decimale di deficit: bisogna avere il coraggio di smettere con la riduzione progressiva del deficit e farlo risalire al 3% (pudicamente dice al 2,9%) e lasciarlo lì per cinque anni. In questo modo – continua – si recupererebbero circa 30 miliardi di euro che potrebbero consentire finalmente una seria riduzione delle imposte. Naturalmente, così facendo l’Italia rifiuterebbe in radice il “fiscal compact” che invece prevede un impegno di azzeramento in tempi brevi del deficit, anche se formalmente rispetterebbe il parametro del 3 per cento originariamente fissato nel trattato di Maastricht.

E’ evidente che la nuova posizione di Renzi costituisce il riconoscimento che la strategia di questi anni seguita dal suo governo non ha funzionato. Egli infatti aveva accettato il percorso di riduzione del deficit chiesto dall’Europa limitandosi a negoziare una minore rapidità di rientro, ma questo non aveva consentito di fare uscire l’economia italiana dalla crisi. Ora Renzi lo ammette indirettamente proponendo una politica molto più radicale e afferma che senza una forte ripresa della crescita non vi è nessuna possibilità di affrontare il problema del debito pubblico italiano. Si tratta di osservazioni che su questo giornale sono state ripetute molte volte negli ultimi tre anni ed alle quali il governo ha sempre risposto che la strategia che essi seguivano consentiva di realizzare insieme il percorso di rientro della finanza pubblica richiesto dall’Europa e la ripresa dell’economia italiana.

Renzi, non più in veste di presidente del Consiglio, ma di aspirante futuro presidente del Consiglio, riconosce che serve uno sforzo molto più robusto per fare ripartire davvero l’economia italiana. E tuttavia, qui si pongono vari problemi che un esponente di un partito di governo non può non considerare con qualche attenzione.

Il primo è che non c’è alcuna base giuridica in Europa per una richiesta di mantenere il deficit al 3% per i prossimi 5 anni. Il riferimento al trattato di Maastricht è puramente politico ed è sostanzialmente irrilevante. L’Italia è vincolata all’impegno di azzerare del deficit, senza se e senza ma, e contemporaneamente di riduzione del rapporto debito/Pil di un ventesimo della distanza fra il livello attuale il livello del sessanta per cento – il che comporta una riduzione di questo rapporto di non meno di 5 punti l’anno! Il governo Renzi non ha mai contestato questi impegni. Dunque andare al 2,9% costituirebbe una violazione dei nostri impegni, tanto quanto andare al 4 o al 5 per cento. In sostanza rifiutare di negoziare “sui decimali” significa rompere con l’Europa. Se, nell’interesse del Paese si ritiene di doverlo fare, se ne prenda atto, ma non ci si illuda che il 2,9% sia meno “illegittimo” di qualsiasi altra cifra superiore a quelle ammissibili dalla Commissione. In altre parola, la questione è se si concorda o no il bilancio con l’Europa.

Il secondo problema è di sostanza. Aldilà della rottura dei vincoli europei, il piano di Renzi non appare ben studiato. 30 miliardi di euro in 5 anni vuol dire circa 6 milardi di euro l’anno, che sono circa un terzo di un punto del reddito nazionale. Sono cifre che l’Europa non può concedere, ma che sono così diluite nel tempo da avere scarsi effetti sulla ripresa economica.

Se si fosse disposti a considerare un programma di sostegno straordinario all’economia attraverso il deficit pubblico – che è quello che personalmente ritengo necessario per tirare l’economia italiana fuori dalla crisi – converrebbe immaginare un aumento straordinario del deficit che non si prolunghi per cinque anni, ma che si concentri in due anni o, al massimo tre, per cifre ovviamente molto più consistenti. Se questo progetto venisse illustrato non con delle affermazioni polemiche sull’Europa ma con dei programmi specifici e fosse accompagnato da una serie di misure di cessioni di attività patrimoniali tali da evitare che, mentre il deficit va oltre il 3 per cento, il rapporto debito/Pil si accresca, allora si potrebbe ragionare seriamente.

Resterebbe la violazione delle regole europee; essa darebbe luogo all’apertura di procedure di infrazione, ma vi sarebbe la possibilità, se il piano avesse successo, di mostrare, già alla fine del secondo anno, risultati importanti sul piano della crescita, degli introiti fiscali e del rapporto debito/Pil.

Messa nei termini in cui è stata posta la questione dall’intervento di Renzi, a parte l’indebolimento oggettivo del governo Gentiloni (che può essere un effetto voluto o non voluto), è molto probabile che la conseguenza principale sarà che il governo sarà indotto a chiedere all’Europa, non la licenza di andare al 3 per cento o oltre, bensì di potere disporre di qualche decimale di deficit in più di quello che oggi la Commissione sarebbe disposta a consentire. In sostanza Renzi dà una mano a continuare la strategia seguita in questi anni, che ha dato – con buona pace del governo – risultati modestissimi (l’Italia è il fanalino di coda della crescita nell’eurozona) e continuerà a non darli.


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