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Abbattiamo il debito pubblico o la speculazione picchierà sull’Italia

debito pubblico, Guido Salerno Aletta, def

Ci sono segnali positivi per l’economia italiana, con il pil cresciuto dello 0,4% nel secondo semestre dell’anno e dell’1,5% in dodici mesi, con una variazione ormai acquisita per quest’anno all’1,2%. È ancora poco rispetto al +2,1% degli Usa e della Germania, al +1,8% della Francia ed al +1,7% del Regno Unito, e soprattutto del +3,1% della Spagna. C’è un differenziale che pesa sull’Italia, un macigno: il debito pubblico, e l’onere per interessi che ne deriva. La cifra pagata dall’Italia tra il 2007 e quest’anno, calcolata come somma dell’onere sul pil di ciascun anno, è stato è stato pari al 41,9%: più del doppio rispetto alla Germania, in cui è stato appena del 20,7%. La Francia ha pagato il 21,9% ed il Regno Unito il 23,2%. Sempre in percentuale sul pil, il saldo primario cumulato dall’Italia, che corrisponde alla quota di entrate fiscali usata per pagare una parte degli interessi mentre la restante quota è finanziata con altro debito, è stato del 14,1%, ma solo il 12% in Germania. Francia, Usa e Regno Unito hanno scialato, con un saldo primario negativo cumulato rispettivamente pari al 23,5%, al 48,5% ed al 44,6% del loro pil.

Non c’è solo un problema di pareggio strutturale e di crescita del pil, ma anche di rinnovo del debito pubblico in scadenza: solo nel 2018, secondo il Centro studi di Uninpresa, si tratta di piazzare titoli per 236 miliardi di euro, rispetto ai 163 miliardi di quest’anno. Nei prossimi cinque anni, con la nuova legislatura, il debito da rifinanziare supera ampiamente i mille miliardi: un impegno notevole per chiunque sarà Ministro del tesoro. Vero è che il Governatore Mario Draghi ha spesso insistito sul fatto che i tassi di riferimento della Bce rimarranno bassi ancora molto a lungo, ben oltre il termine del Qe, ma occorre tener conto anche di quanto succede negli Usa. Non è ancora chiaro quando ci sarà il prossimo rialzo dei tassi statunitensi, e soprattutto quando sarà avviato il processo di ritiro della liquidità mediante la cessione dei titoli della Treasury.

In prospettiva, anche la migliore, i tassi di interesse aumenteranno. E l’esperienza insegna che esiste una stretta correlazione tra le vicende monetarie internazionali e l’andamento del debito pubblico italiano: il rialzo dei tassi di interesse nei Paesi che determinano l’andamento dei mercati finanziari si ripercuote immediatamente in Italia, con un aggravio dei costi per il bilancio che squassa il delicato equilibrio del debito. Accadde così nel 1980, quando ci dovemmo adeguare al rialzo dei tassi deciso da Paul Volker, appena insediatosi come Governatore della Fed: il cosiddetto divorzio tra il Tesoro e la Banca d’Italia era nello spirito dei tempi, in cui non si accettavano più rendimenti reali negativi sui debiti, quale che fosse il prenditore. La devastazione di imprese e debiti pubblici che ne seguì fu terrificante. Il rapporto debito/pil dell’Italia crebbe a dismisura, trainato contemporaneamente dall’aumento dei tassi e dalla frenata dell’inflazione, cancellando i meccanismi che lo avevano tenuto sotto controllo.

Lo stesso accadde dieci anni dopo, quando la Bundesbank dovette spegnere la fiammata inflazionistica derivante dall’enorme potere di acquisto aggiuntivo che era stato determinato dalla conversione alla pari nei Lander orientali dei salari che precedentemente erano pagati in marchi della DDR. Inoltre, per finanziare la ricostruzione, c’era bisogno di capitali freschi, provenienti dall’estero: l’aumento dei tassi tedeschi fu inseguito invano da quelli italiani, determinando una emorragia di capitali che infine portò alla svalutazione. Anche in questo caso, l’aumento dei tassi si ripercosse drammaticamente sul debito e sulla sua sostenibilità. Nessuno può dimenticare che, anche nella tarda primavera del 2011, l’allargamento degli spread sui titoli italiani iniziò in coincidenza con l’avvio da parte della Bce della exit strategy dalla politica acomodante, con due aumenti di un quarto di punto del tasso di riferimento: si aprì una voragine, scatenata dalla crisi portoghese.

Il debito pubblico italiano si troverà di fronte al combinato delle incertezze elettorali, alla chiusura del Qe e alla politica restrittiva americana: tutte condizioni già oggi ampiamente condivise.
Le previsioni del Def portano il rapporto debito/pil ad una contrazione, passando dal 132,5% di quest’anno al 131% del 2018, per calare ancora al 128,2% nel 2019 ed al 125,7% nel 2020. A metà settembre, il Documento sarà aggiornato: molto probabilmente, per l’anno in corso ci sarà un miglioramento rispetto alle previsioni di aprile, visto che la crescita del pil era stata stimata all’1,1% per quest’anno ed all’1% per il 2018. Per quanto riguarda il prossimo anno, si potrebbe anche conseguire l’obiettivo di riduzione già previsto nel Def, bilanciando gli effetti positivi derivanti dalla maggiore crescita con una politica di avanzi primari meno sfidante. Sono previsti scalini assai alti: rispetto all’1,7% di quest’anno, si passerebbe al 2,5% nel 2018, al 3,5% nel 2019, ed al 3,8% nel 2020.

Con la Commissione europea si sta cercando l’intesa per una correzione strutturale molto più contenuta rispetto allo 0,8% del pil indicato nel Def, già parzialmente conseguita con gli effetti di trascinamento della manovrina di primavera. Sui tassi di interesse, sarebbe poco credibile che nell’Aggiornamento del Def si confermasse che il tasso implicito nel debito calerà nel biennio 2018-2019 al 2,9%, rispetto al 3% di quest’anno, e che tornerà a quest’ultima percentuale solo nel 2020. Solo una parte del rifinanziamento del debito in scadenza nel 2018 beneficerà degli effetti positivi del Qe: dopo le elezioni tedesche, ed il sempre più probabile quarto successo della Cancelliera Angela Merkel, le politiche monetarie della Bce dovranno fare i conti con una rinnovata severità tedesca.

Il miglioramento del rapporto debito/pil per l’anno in corso, così come la probabile conferma delle tendenze alla riduzione nel 2018 e successivi, non susciteranno grandi illusioni: saranno ancora una volta i tassi internazionali a condizionare il nostro debito pubblico ed il costo degli interessi. Anche nello scenario più favorevole, mentre le condizioni monetarie si faranno più stringenti, la componente prezzi del pil rimarrà sempre lontana dal 2%: neppure per questa via il rapporto debito/pil sarà migliorato. Aumentando l’onere per interessi, con esso si allontaneranno sia il pareggio strutturale, sia la possibilità di portare il rapporto debito/pil al 60% del pil in vent’anni. A questo obiettivo, ormai non crede più nessuno.

Per quanto possa sembrare paradossale, una nuova crisi esterna all’Europa, militare, politica o finanziaria che sia, riaprirebbe il dibattito anche in seno all’Europa sulla difesa degli interessi nazionali e sulle misure extra ordinem necessarie, come è accaduto con la Brexit e sta già avvenendo in Francia con il nuovo Presidente Emmanuel Macron. Sono in tanti a cercare nuovi equilibri mondiali, che soppianti l’unilateralismo americano sempre più insidiato dalla globalizzazione del potere cinese: l’Europa è il vaso di coccio, pronto ad andare in frantumi.
Occhio, dunque, al debito pubblico italiano: la speculazione finanziaria ha spesso motivazioni politiche, come accadde con l’attacco contemporaneo portato alla lira, al franco ed alla sterlina nel ’92: serviva a rallentare il processo di unificazione europea, facendo saltare lo SME. È accaduto lo stesso nel biennio 2011-2012, puntando ai PIIGS. E la risposta tedesca è stata la medesima, in entrambi le occasioni: vincoli per le finanze pubbliche, sempre più ferrei, per esportare il suo modello ordoliberista, che è in realtà è la proiezione coloniale di un unico kombinat sociopolitico-economico-finanziario. Il Trattato di Maastricht fu ratificato dall’Italia in piena emergenza, sotto ricatto, così come è successo con il Fiscal Compact e la introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione.

Senza misure straordinarie preventive volte ad abbatterlo, il debito pubblico italiano può essere usato ancora una volta, strumentalmente, in una logica geopolitica: il guadagno finanziario sarebbe ben poca cosa rispetto alla posta in gioco: da una parte c’è l’annichilimento definitivo della nostra economia e del poco che rimane della sovranità nazionale; dall’altra lo smantellamento dell’euro e dell’Unione europea a trazione tedesca. Il mazzo di carte è già sul tavolo.


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