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Chi è il vero imprenditore secondo Papa Francesco

Pubblichiamo la parte conclusiva del saggio “Il lavoro che vogliamo” di padre Francesco Occhetta sulla rivista La Civiltà Cattolica

«Il mondo del lavoro è una priorità umana. E pertanto, è una priorità cristiana», ha ribadito papa Francesco il 27 maggio, all’Ilva di Genova. Circondato da circa 3.500 lavoratori, il Papa ha consegnato a tutte le parti interessate una sorta di bussola sul mondo del lavoro, destinata a orientare e rimotivare le comunità cristiane in Italia.

Per Francesco, il lavoro è anzitutto incontro e collaborazione tra persone. Nel suo pensiero, è importante che l’imprenditore consideri il lavoratore una ricchezza e ne apprezzi le virtù. Sappia riconoscerlo e chiamarlo per nome, valorizzarlo nei suoi talenti e dargli fiducia. Sappia lavorare insieme con uno spirito cooperativistico, e non antagonistico e competitivo. Invece, «chi pensa di risolvere il problema della sua impresa licenziando la gente – ha aggiunto Francesco –, non è un buon imprenditore, è un commerciante, oggi vende la sua gente, domani vende la propria dignità». Come ha specificato il Papa, «l’imprenditore non va assolutamente confuso con lo speculatore», colui che, invece di servire, si serve delle relazioni dell’impresa e considera la tecnica, il profitto e la finanza suoi fini, anziché mezzi.

Per la Chiesa, il principio di gratuità è la condizione dell’agire delle imprese. Esso nasce quando lo sviluppo incontra la carità, dove la stessa imprenditorialità è pensata come forma di sviluppo solidale. Lo aveva affermato in una delle sue omelie Basilio di Cesarea, nel 370: «I pozzi dai quali si attinge di più fanno zampillare l’acqua più facilmente e copiosamente; lasciati a riposo, imputridiscono. Così anche le ricchezze ferme sono inutili; se invece circolano e passano dall’uno all’altro, sono di utilità comune e fruttifere».

Nel pensiero di Francesco, è da temere un’economia senza volto, incapace di amare i lavoratori e le aziende, intese come comunità di persone. La buona economia richiede, oltre a buoni imprenditori, anche buone istituzioni: «Qualche volta il sistema politico sembra incoraggiare chi specula sul lavoro e non chi investe e crede nel lavoro». Si devono mettere in discussione leggi e regolamenti pensati per penalizzare gli onesti e privilegiare i forti o che favoriscono il lavoro nero e sommerso; e si devono condannare i lavori frutto di un «ricatto sociale», che obbligano a orari massacranti, mal retribuiti.

Il lavoro ha per Francesco un fondamento antropologico: «Lavorando noi diventiamo più persona». Richiamando il senso dell’art. 1 della Costituzione italiana – «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro» –, ha commentato: «Se non fosse fondata sul lavoro, la Repubblica italiana non sarebbe una democrazia, perché il posto di lavoro lo occupano e lo hanno sempre occupato privilegi, caste, rendite».

Per il Papa, «l’obiettivo vero da raggiungere non è il “reddito per tutti”, ma il “lavoro per tutti”! Perché senza lavoro, senza lavoro per tutti, non ci sarà dignità per tutti». Come è stato scritto giustamente, Francesco sostiene che «l’istante della prestazione e quello della sua retribuzione devono essere inquadrati in modo da consentire al lavoratore di proiettare la propria esperienza professionale (il suo “capitale umano”) sull’orizzonte della propria vita».

La ferma difesa e promozione del lavoro (umano) – che papa Francesco nell’Evangelii gaudium (n. 192) definisce «libero, creativo, partecipativo e solidale» – continua a essere l’impegno della Chiesa in Italia. Nella sua prima Conferenza stampa in Vaticano, il 24 maggio scorso, il nuovo presidente della Cei, card. Gualtiero Bassetti, ha ribadito questo concetto come una priorità e secondo lo stile evangelico del lievito: «Spesso il nostro grido sui problemi della società è stato inascoltato, ma noi continueremo: non possiamo restare inerti davanti ai problemi dei giovani».

In gioco per la Chiesa, oltre alla «cosa» (il lavoro), c’è il «come» (la qualità umana dei lavori): «La meritocrazia affascina molto perché usa una parola bella: il “merito”; […] al di là della buona fede dei tanti che la invocano, sta diventando una legittimazione etica della disuguaglianza». Da premiare sono i doni di cui ogni lavoratore è portatore, non il merito, che finisce per creare disuguaglianza, considerando il povero «un demeritevole e quindi un colpevole», e permettendo al ricco di sottrarsi alla responsabilità della condivisione.

È questa la scommessa della Chiesa, che chiede un mercato non ripiegato sull’obiettivo del profitto a tutti i costi: è la «civilizzazione dell’economia», indicata da Benedetto XVI nella Caritas in veritate (n. 38). E tutto questo parte da «un nuovo patto sociale per il lavoro».

Sono quindi i significati di impresa (umana), cooperazione, mutua assistenza, reciprocità e cura che convertono le logiche competitive e i criteri meritocratici, che apparentemente sono gli unici parametri per valutare un lavoratore e il lavoro di domani.

 

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