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Come evitare nuove ecatombe occupazionali nelle banche

ecatombe occupazionale

Se tutto il mondo del lavoro subisse lo stesso trend di calo dell’occupazione che caratterizza il settore bancario questo Paese subirebbe una perdita di circa 2 milioni di posti di lavoro all’anno. E sarebbe poco definirla una catastrofe…

È da questa considerazione che è nata la definizione di ecatombe occupazionale con cui ho sinteticamente descritto la perdita di 17.500 posti di lavoro in poco più di 6 mesi nelle banche italiane e, francamente, fatico a comprendere, al riguardo, le ragioni di una recente polemica, se non dipendente da rivalità di cui non mi sento né artefice, né partecipe.

Viviamo in un Paese in cui il 34% dei giovani è disperatamente in cerca di lavoro e contemporaneamente deteniamo il record europeo dei Neet, giovani che non studiano e non lavorano. Tra disoccupati e sfiduciati ci sono oltre 6 milioni di persone che non riescono a lavorare pur avendone necessità.

Il settore bancario fino a qualche anno fa era solido, economicamente in espansione e garantiva, tra i pochi nel Paese, stabilità occupazionale e ricambio generazionale.

Oggi, soprattutto a causa della scellerata conduzione di molti gruppi bancari, non facciamo, invece, che parlare di come smaltirne il personale.

E non sfugge a nessuno, di certo non ai cittadini, che a forza di sbagli, le banche sono arrivate a doversi far sostenere, per la prima volta dalla loro privatizzazione, da massicce iniezioni di denaro pubblico. Anche per pagare i costi degli gli esuberi.

E allora perché tanto scalpore se si usa la definizione di ecatombe occupazionale? Il termine era già stato usato dai miei colleghi più accaniti nel rigettarlo, o almeno così risulta dai giornali e nessuno si era mai scandalizzato… ma se vogliamo usare un altro sostantivo per me non è un problema.

Nessuno, tanto meno la First Cisl che ne è firmataria, nega il valore degli accordi che, attraverso l’utilizzo degli esodi volontari hanno consentito la tutela individuale e collettiva dei lavoratori bancari, ma focalizzarsi esclusivamente sui risultati ottenuti in termini di difesa dei redditi, e sottolineo dei redditi, non dei posti di lavoro, forse può servire per auto-compiacersi, ma certo non elimina il fatto che, da oggi in poi, il sindacato bancario di posti di lavoro da difendere ne avrà un po’ meno, anzi, molti meno.

Anche al netto di qualche nuova assunzione, infatti, la perdita di occupazione del settore, solo nel primo semestre del 2017, è superiore al 5% della forza lavoro complessiva.

Quando dico ecatombe occupazionale non dico che siano state macellate persone o famiglie, ma che sono stati falcidiati posti di lavoro. È un dato di fatto. Davvero c’è bisogno di spiegarlo?

Leggo e apprezzo un’altra ricerca sulla riduzione degli sportelli bancari. Se dicessimo che si sta andando incontro ad un’ecatombe delle filiali, sarebbe in contrasto con la sensibilità comune?

È naturale che su un tema che intercetta più il ruolo sociale del sindacato, che quello esclusivamente settoriale, un sindacato confederale possa avere un’attenzione diversa rispetto a quella degli autonomi e quindi non mi meraviglia che Sileoni, il segretario generale della Fabi,  si concentri quasi esclusivamente sullo straordinario risultato ottenuto trasformando potenziali licenziamenti in esodi volontari, ma non posso fare a meno di  ricordare  anche a lui, che rappresenta la prima organizzazione del settore e agli altri miei colleghi  che, se come sindacati confederali dovremmo avere tra le nostre priorità quella di sostenere e favorire la crescita dell’occupazione in genere, come federazioni di settore dovremmo avere, ancor di più, l’interesse a far sì che l’occupazione cresca o, quantomeno, si mantenga nelle banche.

Anche la novella, intesa come narrazione di cose nuove e inaudite, della digitalizzazione che toglierà posti di lavoro è a mio avviso da contrastare.

Come Sindacato di categoria dovremo pretendere che gli investimenti tecnologici non siano funzionali alla dismissione del personale, ma siamo prodromici a supportare nuovi modelli di banca ed un ampliamento dei prodotti e, soprattutto, dei servizi offerti alla clientela.

Solo con investimenti che guardano al lungo periodo e che innovano i processi nelle banche coinvolgendo i lavoratori e le loro rappresentanze, a partire dalle politiche commerciali, dall’organizzazione del lavoro e dalle attività di controllo si potrà immaginare di evitare che l’innovazione digitale diventi, al pari della depredazione manageriale degli anni scorsi, un nuovo nemico dell’occupazione.

Ma per farlo occorre non essere affetti dalla sindrome della squadra provinciale, che ti fa gioire se al novantaquattresimo minuto riesci a pareggiare, magari con un rigore regalato dall’arbitro, dopo un’intera partita in cui ti sei solo difeso.

Occorre piuttosto mettere in campo e accettare serenamente una vera dialettica sindacale, fatta non di rivalità, colpi bassi, delazioni e dispetti, ma di sereno confronto politico sulle idee quando esse sono diverse, rischiando di scoprire che, nel merito, quasi mai sono incompatibili.

Attardarsi in “competizioni senza gara” in cui, pur di prevalere, ci si dedica a sgonfiare le gomme degli altri, anziché ad alternarsi alla testa del gruppo per andare più spediti non servirà a difendere i posti di lavoro. Né, a questo scopo, servirà partecipare a questo o quello schieramento per meri interessi di organizzazione.

Se, invece, il sindacato del settore saprà,  come ha fatto tante volte nella sua storia, compattarsi unitariamente, non solo con un’unità di facciata, ma accettando di elaborare, progettare, sostenere e costruire insieme nuove proposte, allora sarà in grado di mettere in campo una squadra capace di giocare in attacco e vincere, per quanto difficile, la partita del buon lavoro.

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