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Draghi e Yellen, ecco messaggi, stilettate e invasioni di campo

Alcuni osservatori lo hanno chiamato “un silenzio coordinato”, certo è che i capi delle due più importanti banche centrali non hanno detto nulla sulle scelte che il mese prossimo compiranno in materia di politica monetaria. Si è capito che non ci saranno novità clamorose, la Bce in particolare continuerà a tenere aperti i rubinetti e la Fed non farà nulla per soffocare una crescita continua, ma debole secondo gli standard americani. Il tasso d’inflazione, del resto, non è ancora tornato alla mitica soglia del 2% (troppo bassa per molti), scelta dalle banche centrali come punto di riferimento.

C’è ancora da discutere (e parecchie cose si sono già dette) sul perché, nonostante iniezioni massicce di moneta, i prezzi continuano a ristagnare. Il Giappone, che ha cominciato per primo la danza del denaro facile, non ha ancora fugato del tutto la deflazione. E’ vero, per la prima volta in tanto tempo l’economia americana e quella europea crescono in piena sintonia, e anche questo è merito di un coordinamento di fatto delle politiche monetaria. Ma sia Yellen sia Draghi hanno scelto di mandare un doppio messaggio a Donald Trump e ai governi europei: guai a mettersi sulla strada del protezionismo e guai a pensare che la fine della lunga recessione non renda più necessarie le nuove regole imposte sul sistema bancario.

Le banche centrali sono indipendenti e lo hanno dimostrato, questa volta però sono entrate nel terreno della politica. Perché lo hanno fatto? E hanno ragione?

La risposta alla prima domanda è quasi evidente: il libero scambio è in ritirata. A dieci anni dalla crisi i flussi di capitale al di là dei confini si sono ridotti: nel 2007 erano tre volte più alti rispetto al 2016. Ciò può far stappare champagne a tutti i nemici della “finanziarizzazione selvaggia”, ma senza denaro liquido che fluisce senza ostacoli, senza capitali naviganti nel gran mare dell’economia mondiale, non c’è sviluppo e non c’è benessere. Si potrebbe dire che in fondo Donald Trump interpreta lo spirito dei tempi (anche in questo caso, come per le fake news e tutte le sue altre trovate demagogiche). Ma se la politica anziché governare i processi li subisce sperando così di trarne vantaggio elettorale aggrava la situazione.

Di fronte a una tale ritirata del capitale globale bisogna chiedere di aprire ancor più le frontiere non chiuderle. Ogni scelta protezionista non fa che produrre un effetto a catena che deprime una crescita sostenuta non tanto dalla forza degli “spiriti animali” del capitalismo (anche se ci sono all’opera grandi innovazioni tecnologiche destinate a produrre effetti positivi nel medio periodo), ma dalla moneta stampata dalle banche centrali.

Anche il monito a due voci contro la nuova deregulation finanziaria annunciata da Trump serve a mettere in guardia da scelte che possano turbare il fragile equilibrio economico raggiunto. Su questo punto, sia Draghi sia Janet Yellen compiono una scelta anche in punta di dottrina: entrambi credono in un sistema finanziario che segua delle regole volte a rafforzare la ricaduta sulla economia reale. Dunque, le banche debbono avere capitale sufficiente a sostenere una nuova probabile crisi, non debbono avventurarsi in operazioni che mettano a rischio i depositi, debbono tenersi ancorate al mestiere di prestare quattrini alle imprese e alle famiglie lasciando ad operatori specializzati la roulette dei derivati e le operazioni ad alto rischio. Una impostazione che ha fatto scuola finora, ma non risponde a una domanda: come mai la tempesta nel 2007 è scoppiata nelle banche che erano anche prima il settore più regolato dell’intero universo finanziario? Regole eccessive non rischiano di creare lacci e lacciuoli che aggravano la ritirata del capitale senza per questo garantire che arrivi un nuovo crac? I banchieri centrali non hanno la bacchetta magica, ma siccome Draghi e la Yellen si sono incamminati sul sentiero della politica economica tout court toccherà anche a loro cercare una soluzione.

Draghi ha esordito dicendo che al centro del dibattito c’è come aumentare il prodotto potenziale sceso dal 2 all’1 per cento nei paesi Ocse e ha difeso l’apertura dei mercati contestando punto per punto le accuse dei detrattori sulla equità, la distribuzione del reddito, la sostenibilità sociale, economica e politica del libero scambio. Ma ha sottolineato che occorre un grande “cooperazione multilaterale”. Per cooperare, però, bisogna essere d’accordo sui fini da raggiungere ed è proprio questa convergenza che oggi manca al vertice dei grandi paesi. Quanto alla regolamentazione, per Draghi le norme introdotte dopo la crisi non hanno soffocato il mercato dei capitali, al contrario lo hanno salvato. Ha concluso lanciando uno dei suoi slogan: “La protezione assicura di non cadere nel protezionismo”. Una distinzione sottile, forse troppo per Trump & Co.


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