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Vi racconto gli intrecci fra politica e affari in Brasile (e non solo in Brasile)

Le denunce di corruzione tra politica pubblica e affari privati non sospendono né la politica né gli affari, che anzi se ne servono per avvantaggiare ciascuno i rispettivi interessi. Non si tratta di derubricare perciò i reati commessi e connessi, bensì del contrario: di evitare che la denuncia degli accusati di turno distolga l’attenzione dell’opinione pubblica dall’attività legislativa e dalle transazioni economiche comunque in atto, cosi come da quelle prossime a venire. E’ bene evitare tanto il cinismo quanto il moralismo, se davvero si vuole colpire con efficacia il fenomeno corruttivo, sempre e ovunque in agguato delle pubbliche amministrazioni. Salvaguardando lo stato, le sue prerogative e i diritti dei cittadini in quanto tali.

E’ questo il richiamo ricorrente che si può cogliere nell’informazione internazionale, dal New York Times a la Folha di San Paolo del Brasile, al britannico Guardian, a El Pais di Madrid, al Berliner Zeitung e altri giornali ancora, sull’uso strumentale dei gravissimi scandali che da quasi 3 anni percorrono l’America Latina, prostrandone le istituzioni repubblicane. La disillusione dei cittadini lascia indifesa la democrazia. I 263 deputati di Brasilia che contro il parere di altri 227 hanno salvato il presidente Michel Temer dall’accusa di corruzione grave rivoltagli dal Procuratore Generale Rodrigo Janot, sono gli stessi che solo un anno fa hanno voluto l’impeachment di Dilma Rousseff – mai, da nessuno accusata di arricchimento personale -, per aver truccato il bilancio dello stato al fine di nascondere l’incipiente crisi economica.

Nyt riferisce che in Brasile secondo l’autorevole agenzia di sondaggi Ibope la popolarità di Temer è scesa al 5 per cento, la più bassa mai avuta da un presidente; oltre l’80 per cento dei brasiliani vorrebbe la sua sospensione dall’incarico, il 73% non tornerebbe ad eleggere i parlamentari che l’hanno salvato. Ma osserva che i milioni di dollari distribuiti alle amministrazioni locali, sommati alle riforme neo-liberali dell’economia, gli hanno assicurato il sostegno parlamentare necessario. “Il Brasile non può permettersi un’altra crisi istituzionale”, si giustificano i pragmatisti (dimentichi della lezione di Aristotele). “Forse che la cultura dell’impunità non ha costi per la politica?”, replicano gli altri. I quali non esprimono un semplice sussulto di etica pubblica. Folha informa che il partito socialdemocratico si è appena spaccato per iniziativa dell’ex presidente F. H. Cardoso, facendo saltare la coalizione di centro-destra che avrebbe dovuto affrontare e vincere le elezioni dell’anno prossimo.

Il gigantismo transnazionale delle imprese brasiliane che hanno provocato l’interminabile terremoto politico-giudiziario (Petrobras negli idrocarburi, Odebrecht nelle grandi costruzioni, Jsb dei fratelli Joesley e Wesley Batista, leader mondiali della carne in scatola), è tornato ora a scuotere il confinante Ecuador. Anche qui lotta politica e accuse di corruzione si rialimentano reciprocamente. Il presidente Lenin Moreno, a dispetto del nome (dovuto – si dice – a un eccesso d’enfasi del padre) espressione dell’ala dialogante del centro-sinistra ereditato dal predecessore Rafael Correa, ha liquidato il proprio vice, Jorge Glas, indicato come uno dei beneficiari delle cospicue bustarelle della Odebrecht. Glas proclama però la sua innocenza e si dice invece vittima dell’attacco scatenato da Moreno contro la linea dogmatica della coalizione di governo, l’Alianza Pais. Solo la partecipazione dei cittadini può salvare la politica, di questo vive la democrazia.


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