La gallina dalle uova d’oro di Vivendi si chiama Universal Music Group, la più grande etichetta discografica mondiale di proprietà del colosso dei media francese che ha anche la quota di maggioranza di Telecom Italia. L‘ultimo studio della serie “Music in the Air” di Goldman Sachs snocciola numeri entusiasmanti per l’industria dello streaming, con un fatturato globale che salirà a 28 miliardi di dollari nel 2030, il 16% in più di quanto precedentemente stimato. Gli abbonati a servizi di streaming saranno in totale 847 milioni nel 2030. Tutte buone notizie per Universal e per Sony Music Entertainment, i colossi mondiali della produzione musicale che, secondo Goldman Sachs, già intascano “il 55-60% delle royalties di ogni contenuto monetizzato”.
MUSICA PER LE ORECCHIE DI UNIVERSAL
La crescita del business dello streaming online beneficerà anche i concorrenti – Amazon, Pandora, Tencent, Apple, YouTube – ma per le major discografiche il quadro è così roseo che Goldman Sachs ha alzato la sua valutazione di Universal Music Group a 23,5 miliardi di dollari (+16%) e quella di Sony a 20,1 miliardi (+12%). Che siano a pagamento o gratuiti, i servizi di streaming sono sempre un guadagno per le case discografiche, perché se non c’è l’introito dell’abbonamento c’è quelle delle pubblicità, spiegano gli analisti. Inoltre i servizi di streaming musicale permettono di sfruttare meglio il catalogo: le major riescono a monetizzarne circa il 70% contro il 50% che viene monetizzato con i servizi di download.
Il target ideale dello streaming sono i Millennials e la Generazione Z, nativi digitali concentrati sull’esperienza musicale, non sul possesso del vinile o del Cd, e sulla convenienza: prezzo basso, musica sempre con sé sul cellulare. Il miglioramento della connettività Internet, fissa e mobile, non può che aumentare l’accesso e l’apprezzamento di questi servizi. “Dopo 15 anni di distruzione del valore causata dalla prima rivoluzione digitale, finalmente l’industria della musica ha davanti 15 anni di creazione del valore portata dalla seconda rivoluzione digitale che beneficerà tutti i players”, dice Goldman Sachs.
PROMESSE E INCERTEZZE DELLO STREAMING
L’ultimo report dell’Ipfi (International Federation of the Phonographic Industry) ha mostrato come il 2016 sia stato l’anno con la crescita più alta dal 1997 per la musica registrata, con un fatturato di 15,7 miliardi di dollari (+5,9%) su scala globale, di cui la metà legato al digitale. Gli introiti dei servizi di streaming sono cresciuti del 60,4% e gli utenti paganti sono 112 milioni. Tuttavia, per raggiungere le cifre messe in conto da Goldman Sachs, scrivono i commentatori di Variety, occorrono due importanti cambiamenti: Spotify, il più grande servizio di streaming, deve cominciare a produrre profitti (l’anno scorso aveva una perdita operativa di 389 milioni di dollari) e YouTube deve migliorare la monetizzazione dello streaming musicale: lo studio dell’Ifpi definisce la piattaforma di Google (e altre simili) la più grande minaccia alla crescita dell’industria musicale per il divario tra il valore che YouTube e gli altri creano per sé e il valore che viene restituito a chi “crea la musica e investe nella musica”.
Questioni che non spaventano Goldman Sachs, che ha un prezzo target su Vivendi di 25,20 euro e un rating “buy” sulle azioni. Nei giorni scorsi diverse società di rating hanno dato le loro indicazioni sul titolo di Vivendi e, sia in virtù del suo business musicale sia in attesa di risultati finanziari semestrali positivi, alcune stime sono ottimistiche: Deutsche Bank ha fissato il prezzo target del titolo a 26,00 euro e dà un rating “buy”; “buy” e prezzo target di 24,00 euro secondo Societe Generale; “buy” e 25,00 euro per Morgan Stanley; “buy” e 21,00 euro per S&P Global. Non tutti però concordano e quattro società di analisi consigliano “sell”, quattro “hold”.
LE SCELTE DI BOLLORE’
Secondo i dati riportati dal Financial Times, Universal Music Group ha intascato 1,5 miliardi di euro dallo streaming e dagli abbonamenti nel 2016, grazie al boom delle piattaforme come Spotify che devono pagare le royalties alle major quando riproducono la loro musica. Le entrate di Universal generate dallo streaming sono cresciute del 58% nel 2016, annullando le perdite nel download digitale e nelle vendite di Cd (-29% e -15% rispettivamente). L’utile operativo di Universal è cresciuto del 10% a 687 milioni di euro l’anno scorso.
Secondo Bloomberg, Universal resta una risorsa di enorme valore per Vivendi e un’eventuale Ipo (l’ipotesi di vendere una quota sul mercato è stata formulata da Vincent Bolloré a luglio) potrebbe non essere un’idea felice. Non c’è consenso tra gli analisti sulla valutazione di Universal Music, ma si va da un minimo di 8,5 miliardi di dollari a un massimo di 23 miliardi. Vivendi (che ha un valore di mercato di 24,7 miliardi di euro) le mette un cartellino di 20 miliardi. Bolloré sembra voler disgiungere la quotazione di Universal da quella di Vivendi per non influenzare il prezzo di quest’ultima ma, secondo Bloomberg, il rischio è che molti investitori si buttino su Universal Music, che è il traino dei ricavi del gruppo, e abbandonino Vivendi e le sue “dubbie scelte” strategiche” come l’investimento da 3 miliardi di euro in Telecom Italia” che “ne distrugge il valore”.