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Il mio ricordo del Brasile prima di Lula (e di Cardoso)

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Olinda-Recife, (Pernambuco)

Henrique ha tutta l’allegria dell’innocenza, agnus dei. Disinvolto e leggero come la sua età, che non arriva alla trentina. Scherza e sorride volentieri di se stesso, subito sfugge le contrapposizioni dello storico conflitto sociale del Nordeste: “Cangaceiro non sono; meno ancora coronel: per gli amanti della politica-folclorica sono una delusione”. Stringe i grandi occhi leggermente a mandorla sul volto ovale, ben rasato. Un ragazzo colto e consapevole che nella tormenta della dittatura militare degli anni Sessanta non rinuncia alla serenità di manifestarsi com’è, ottimista per scelta.

A tavola il cuore gli pulsa tra la lingua e le labbra. Si vede che assapora con gusto l’aragosta alla brace, che qui sulla povera costa nordestina è popolare come le vongole a Napoli; e mentre la smonta con le dita agili e la sbocconcella lentamente ci guarda con attenzione per avere conferma che piace anche a noi, che ha scelto bene la bettola in cui ci ha invitati a cena. Un frammento del crostaceo gli schizza sulla camicia a grandi quadri rossazzurri e gliela macchia. Il suo imbarazzo affiora con una smorfia di rammarico. Arrivano altri clienti, lo salutano e con ciascuno è un abbraccio. In questo quartiere popolare è visibilmente assai noto. Ciò che un pò lo lusinga e un pò lo mette a disagio, quasi se ne scusa.

Più tardi sulla spiaggia senza fine, tanto bianca che la luna la fa brillare nel buio, ci fa conoscere gli amici pescatori, occupati a preparare le barche per l’uscita notturna sull’oceano appena increspato. È gente poverissima, orgogliosa, di spirito libero. La durezza della dittatura militare, qui particolarmente violenta, non l’ha intimorita, solo resa più accorta. Mentre carica a bordo i grossi rotoli delle reti appesantite da piombi alternati sapientemente ai sugheri affinché galleggino alla profondità voluta, Henrique provoca un vecchio barbuto indicandocelo come un amico dei coroneis, i latifondisti padroni della regione. La risposta è un complice sghignazzo. Aiutiamo a spingere in acqua una delle barche più grandi. Henrique osserva compiaciuto. Lui resta indietro per non bagnarsi le scarpe (“Sono nuove, è un regalo di mia madre…”), mentre aiuta ad accendere le lampade ad acetylene. È una bella persona, un prete coraggioso che aiuta ogni giorno gli ultimi.

Vederlo un mattino senza più vita, appeso a un albero, dev’essere insopportabile. Vi è stato appeso, non impiccato: non è stata la corda a ucciderlo, ma i proiettili calibro 38 che hanno prima crivellato il giovane corpo ossuto, evirato infine da un ultimo oltraggio machista e avvolto in un sudario ormai sanguinolento. Ce lo descrive così, più o meno con queste stesse parole, Dom Helder Camara, il suo vescovo, l’arcivescovo di Olinda e Recife, un pezzo di storia maggiore della chiesa cattolica in Brasile e nell’intera America Latina. Nella sua vita ne ha viste… una lunga vita sempre sulle frontiere delle sofferenze spirituali e sociali che frastagliano la gigantesca geografia antropologica del Brasile. Dall’integralismo degli anni Trenta, non privo di tratti fascistoidi, alla Teologia della liberazione dalla miseria e dallo sfruttamento come salvezza anche dell’anima. Nel darci la notizia al telefono, Dom Helder è a sua volta straziato: gli si spezza la voce.

L’hanno sgozzato con la peixeira, come fanno i pescatori col merluzzo grande, da queste parti è un codice, una minaccia diretta anche ai suoi amici: non lo riconoscereste, dice. C’è da credergli, se è lui a dirlo. Minuto e asciugato dalle tensioni non meno che dagli anni, Dom Helder resta un uomo di ferro. Eppure deve interrompersi tra una parola e l’altra, il respiro lo soffoca.

È fine maggio 1969. L’abbiamo lasciato soltanto da qualche giorno per tornare a Rio de Janeiro, dopo quelli intensissimi trascorsi con lui e il suo coadiutore che sapeva essere tanto grato alla vita da volerla condividere con tutti. A un tratto deve aver intuito qualcosa, colto un segnale di pericolo. Ci ha spinto ad andarcene prima del previsto: abbiamo capito che non si sentiva tranquillo con noi lì, esposti insieme a lui alla vendetta. La pratica dell’orrore è una perversione, ma anche una strategia politica mirata al controllo sociale. Serve ad alimentare il terrore e assopire le coscienze.

La polizia lascia intendere che potrebbe essere stata una questione di donne, una questione passionale. Una diffamazione incredibile fino alla banalità. Henrique Pereira da Silva Neto, viene descritto dai giornali locali come disinvolto e poco convenzionale, sempre in compagnia di giovani. Tacciono che il sacerdote era assistente della gioventù cattolica e giovane egli stesso. Suona falsa e oltraggiosa l’ipocrita comprensione di chi aggiunge che da queste parti preti come lui non sono rari. All’università e nei tuguri dei mokambos in cui lo conoscevano bene, nessuno ha dubbi: l’hanno ucciso quelli del CCC, il Comando per la Caccia ai Comunisti, un gruppo semiclandestino di estrema destra finanziato dai grandi proprietari, con forti protezioni nelle Forze Armate. Assassini che uccidono chiunque si opponga alla dittatura, a comando; ma anche semplicemente per sadismo.

L’amico Roberto Magni, giornalista anch’egli, poi funzionario internazionale a Bruxelles, ed io, avevamo incontrato Dom Helder Camara una prima volta a Roma, alla vigilia del Concilio Vaticano II, negli uffici dell’IDOC (Information Documentation on the Conciliar Curch) allestiti dalla curia olandese in piazza Navona, nell’edificio attaccato alla chiesa di Sant’Agnese in Agone. Ce lo aveva presentato un altro sacerdote brasiliano e nordestino, Almeri Becerra de Melo, un giovane sociologo che con un gruppo di religiosi olandesi era impegnato nei lavori preparatori del Concilio. Un mondo nuovo tra chiese giovani e qualche vecchio cardinale fermamente impegnato a sostenerle.

Dom Helder, discreto ma attento e attivissimo, aveva attraversato l’oceano per venire a conoscerli. Era già un intellettuale famoso: vicino all’humanisme integral di Jacques Maritain, aveva dialogato a lungo con Luis Joseph Lebret, il domenicano francese che ha dato un apporto decisivo agli studi sull’arretratezza dell’economia terzomondista. Non si può capire di dove sia scaturita la spinta evangelica che ha infine condotto Papa Bergoglio sul soglio di San Pietro, senza transitare per la biografia dell’arcivescovo Camara.

Quando dopo qualche anno l’avevamo chiamato per concordare un’intervista che avrei scritto per il settimanale L’Espresso, era stato ben felice di avere l’occasione per rivederci. In Brasile, però, la situazione è sempre più drammatica. Il primo aprile del 1964 i generali hanno paralizzato il paese con i carri armati, arrestato il Presidente Joao Goulart e i suoi ministri, ucciso o incarcerato centinaia di parlamentari, sindacalisti, governatori, sindaci, chiunque non godesse della loro fiducia, e si sono installati al potere. Il loro primo atto è stato quello di sospendere le libertà costituzionali e cancellare le riforme che Goulart stava avviando per ammodernare il paese, gigante sdraiato (“e addolorato”, aggiungeva Dom Helder) dell’America Latina secondo la sua stessa poesia patriottica.

A Rio, sole, mito e folclore sfumano la tragedia in atto fino a mimetizzarla. Ci sono il samba che distrae, la cachazha che inebria con i suoi 45 gradi. Le sabbie morbide di Copacabana, Ipanema, Leblon fino a Barra da Tijuca, incorniciano la baia più bella del mondo. Tra Flamengo e Botafogo, lungo rua da Laranjeiras gli aranceti scendono dal Corcovado al mare non ancora inquinato dagli scarichi urbani. Il rassegnato sorriso carioca scaccia dalle facce delle ragazze a tristeza che Chico Buarque, Vinicius, Toquiño e tutta la fronda musicale cantano per placare a saudade di democrazia, una nostalgia fortissima che in molti già diventa rabbia. Ci sono episodi di crudele repressione, arresti clandestini e ribellione armata. Nondimeno la vita quotidiana non conosce le brutalità del Nordeste.

Internarsi verso il Brasile profondo e il sottosviluppo di Bahia, Ceara, Maranhao, Piaui, Segipe, Pernambuco, una regione grande sei volte l’Italia, significa viaggiare all’indietro, fino medioevo. Nelle immense campagne, tra caffè e canna da zucchero, il padrone gode ancora dello jus primae noctis e quando va ad affacciarsi nelle capanne per verificare chi è morto e chi è nato, le madri nascondono dietro le bestie le figlie adolescenti. La giornata di lavoro dura 16 ore, nelle case dei contadini l’acqua corrente è a tal punto impensabile che non ci sono neppure i lavabi. Arrivati in questo Brasile, cade il telone variopinto che nascondeva la realtà di gran parte del paese. Si attraversano terre in cui la dolcezza e la ferocia mostrano alternativamente i loro volti. Quello che affrontiamo per andare nel Pernambuco, dove ci attende Dom Helder, è un viaggio al culmine della notte.

Roberto ed io abbiamo deciso di farlo in camion. Vogliamo vedere il Brasile della gente comune, che di certo non viaggia in aereo. Sono due giorni e una notte, ci dicono che arriveremo con la schiena rotta e c’è da crederlo. Nel cassone del pesante automezzo sul quale più che seduti stiamo ammucchiati in ventiquattro, nessuno parla e presto dormicchiano quasi tutti, appoggiati uno all’altro. Gli scossoni improvvisi che ci scuotono bruscamente ogni volta che passiamo dai tratti stradali asfaltati a quelli in terra battuta sono duri, i passeggeri però sembrano abituati e non si sente un fiato.

Prende ad aleggiare un odore robusto di frittelle e fagioli neri. Qualcuno ha cominciato a mangiare a occhi bassi da invisibili recipienti nascosti nella carta di giornale che li avvolge. Sono fogli del quotidiano più diffuso, O Globo, del magnate della comunicazione Joao Roberto Marinho, che sostiene i militari e contemporaneamente nasconde nella sua villa di Santa Teresa, aggrappata alla montagna del Corcovado, gli amici comunisti in pericolo. Solidarietà di elites: alla brasiliana, non alla Wright Mills; eppoi, qui, gli amici sono amici, sono parte della famiglia estesa.

Procediamo lungo una linea parallela alla costa per evitare le montagne, mantenendoci tuttavia qualche chilometro all’interno: sulla nostra sinistra la sierra dell’Espinhazo di cui vediamo qualche altura brulla, verso destra s’intuisce l’Atlantico. Prima fermata, per le urgenze fisiologiche, a Espiritu Santo: aria irrespirabile, per fortuna ripartiamo in fretta. Altre cinque, sei ore ed entriamo nello stato di Bahia, il più mistico e sincretico del paese: Bahia di tutti i santi e di tutti i peccati, chiosa un passeggero gentile per Roberto e me, chiamandoci senhores extrangeiros.

Qui la religione cattolica e i riti africani portati dagli schiavi neri si sono fusi in una doppia, comune devozione che si è irradiata in tutto il Brasile: due nomi per lo stesso santo, liturgie distinte per la stessa fede. Ma richiamano la nostra attenzione soprattutto le scritte “Deus è!”, dipinte a calce bianca sui massi piú grandi lungo la strada. Sono centinaia: un rosario ammonitore che si dipana per chilometri e chilometri. Nessuno dei nostri compagni di viaggio sa dire chi le ha scritte, perché… Le nostre domande sembrano sconcertarli.

Fa buio pesto quando passato Ilheus ci fermiamo per la notte. Scendiamo ed entriamo con gli altri nell’albergue scelto dall’autista, un bahiano nero come la pece e grande come un orso. Nota qualche nostra perplessità e ci rassicura garantendo che c’è da dormire per tutti. Solo che l’albergue, che in Brasile vuol dire locanda, ostello e non albergo come l’intendiamo in Europa, appena superato l’ingresso richiama piuttosto l’immagine di un cimitero. Infatti i posti letto sono veri e propri loculi della misura d’un feretro per adulti, uno attaccato all’altro, disposti su tre piani che bucano come un pezzo di formaggio gruyere l’intera parete di fondo della precaria costruzione in mattoni forati, solo in parte intonacata. Anche i lucignoli appaiono cimiteriali.

Senza battere ciglio i più stanchi pagano anticipato alla cassa e si infilano così come stanno ciascuno nel loculo assegnato: con una piccola acrobazia entrano dalla scala a pioli prima con un piede poi con l’altro, lanciano avanti le gambe spingendosi con le braccia, in modo che la testa resti sulla soglia di entrata e sia più agevole respirare. Roberto, che vanta esperienze più avventurose delle mie, li segue: avevamo detto di voler vedere come vive questa gente, non è vero? mi dice beffardo. Io faccio un rapido calcolo e concludo che il camion dev’essere rimasto mezzo vuoto. Ci ritorno e mi sdraio su una delle due panche che corrono lungo il cassone. Non sento nè fame nè sete. Stanchezza e sonno anestetizzano ogni altra necessità.

L’indomani la partenza è in un’aurora australe mezza livida. Attraversiamo alcuni miserrimi villaggi del Sergipe, agglomerati di baracche fatiscenti e piccole folle che camminano a piedi nudi. Da Aracaju vediamo in lontananza montagne grigie e tondeggianti; quando poco dopo varchiamo il confine con l’attiguo stato di Alagoas un passeggero che s’era sistemato sul bordo e occhieggiava attento il percorso, salta a terra più agilmente d’un gatto e scompare. Nessuno apre bocca.

Cento metri oltre il camion blocca i freni di fronte ai bidoni dipinti di bianco d’un posto di blocco militare. Il controllo risulta una pura formalità. Oltre Maceió ci dicono che Recife non è lontana. Dobbiamo solo varcare il San Francisco, il fiume più importante della regione, imponente come il nostro Pò. Ma ben più pericoloso, perchè infestato dai piranhas. Chi ha la disgrazia di caderci dentro, in pochi minuti è già uno scheletro. E l’attraversamento si fa su una balza tirata a mano con le corde dalla parte opposta, un sistema primitivo.

Anche in questo caso l’autista, che – intanto abbiamo appreso – si chiama Jorge, ci rassicura. Però stavolta non gli concede molto credito neppure Roberto, che vuol vedere come funziona il trasbordo. Passa prima il camion, vuoto, cioè con soltanto Jorge al volante. Poi una prima metà dei passeggeri, divenuti nel frattempo una trentina. Con noi salgono sullo zatterone l’autista, che ha lasciato il camion sull’altra sponda ed è tornato indietro, e un altro gigante nero con sulle spalle un quarto di vacca putrido che rilascia odori schifosi. Appena ci stacchiamo, cominciano a tagliarne un blocco col machete e lo lanciano nel fiume a monte della corrente. L’acqua subito ribolle, l’esca scompare immediatamente.

Ma è quasi un vortice scavato nel fiume quello che si forma di colpo quando più avanti lasciano cadere il resto della bestia. Nugoli di famelici piranhas, uno sfrecciare di cunei argentei che balzano fuori dell’acqua e s’attaccano alla carne che per qualche istante galleggia, sostenuta da un branco talmente compatto da formare un piedistallo guizzante che si mantiene al filo della corrente. Noi sbarchiamo dall’altra parte e siamo ormai in Pernambuco. Jorge e il suo compagno tornano a prendere il resto dei passeggeri e stavolta ne approfittano per portare di qua anche quattro cavalli. Ci sembra di capire anzi che la cautela di distrarre i piranhas con la succulenta esca era con ogni probabilità destinata più a proteggere loro che noi. Si tratta di quadrupedi pregiati, di un vicino allevamento di razza araba.

Inaspettatamente, Recife ci appare estesa, moderna e affollata, con il centro traboccante d’un traffico disordinato, posseduto dal frastuono perenne. Il folclore sonnolento e tenebroso delle campagne, Antonio das Mortes, i cangaceiros con il largo sombrero sulla testa e un cavallo da spronare ventre a terra verso l’avventura della libertà, restano nei fotogrammi del cinema novo, nei film di Glauber Rocha conservati dalla cineteca locale. La città emerge come un iceberg dall’immenso retroterra di arretratezza di questo Nordeste di grandi tradizioni culturali, musica e letteratura, e altrettante povertà e violenze. È una proiezione dello sviluppo a cui tra cento contraddizioni aspira il Brasile intero.

Dall’albergo scelto un pò a caso, telefoniamo a Dom Helder, che ci dice o meglio ci ordina di lasciarlo immediatamente. Non è sicuro… No, non si tratta di trovarne un altro. Dovete venire a Olinda, fatevi condurre al seminario Maggiore. Suor Birgitte vi attende. Ci arriviamo in una mezz’ora o poco più, alle prime ombre del tramonto. Birgitte, una suora irlandese giovane ed energica ci ha preparato due letti in una stanza immensa del Seminario Maggiore, il cui soffitto a travi è letteralmente tappezzato di pipistrelli appesi come lugubri festoni neri in una sala mortuaria. Non è un gran bel vedere. Ma Roberto assicura che sono innocui e che con le prime luci dell’alba voleranno via dalla finestra.

È vero, l’indomani mattina non ci sono più. L’enorme costruzione coloniale, dalle arcate a tutto sesto del piano terra fin sul tetto di tegole rosse, ha preso il colore del sole e suggerisce una quieta serenità. Se non ci fossero tante palme, dalla cima della collinetta in cui ci troviamo potremmo pensare di trovarci di fronte a un paesaggio toscano, dolce e arrotondato. Tutta Olinda è una preziosa reliquia seicentesca, chiese, vicoli, locande formano un delicato presepe. È a questo punto che si presenta Henrique, un ragazzo più giovane della sua giovane età, di dichiarato buon umore, estroverso, agile, semplice, pantaloni e camicia maniche corte, inviato dall’Arcivescovo per accompagnarci da lui: non preoccupatevi, noi nordestini sappiamo essere anche gentili… Il suo portoghese suona amabile come le parole che ci rivolge per salutarci.

Sul retro della parrocchia de La Frontera, Dom Helder ci riceve all’ingresso della sagrestia, dietro la quale ha ricavato due stanzette in cui abita. È in clergyman, colletto rigido bianco, sul petto un crocefisso di legno appeso al collo con una catena di metallo e il volto sfilato che si allunga su due stempiature profonde, preannuncio di un’incipiente, più marcata calvizie. Ci abbraccia e ci avverte subito che la situazione è sempre più difficile: indica sull’intonaco i segni dei colpi di fucile mitragliatore esplosi solo qualche settimana addietro, quando lui era all estero per una serie di conferenze. I nemici che lo chiamano demagogo e populista perchè ha preferito alloggiarsi in questa chiesetta fuori mano piuttosto che nel bel palazzo arcivescovile della centralissima avenida Rui Barbosa, intendono in questo modo rendere più convincenti le loro critiche. Dom Helder appare tanto preoccupato quanto irremovibile.

Racconta che è andata male fin dal suo arrivo, cinque anni prima, sebbene la gente di qui non gli fosse sconosciuta, lui stesso è nordestino di Fortaleza, nel non lontano Cearà. Ma dopo tre decadi nella diocesi di Rio, il Papa mi ha mandato qui nell’aprile del 1964. All’indomani del colpo di stato. Cosa potevo fare, chiudere gli occhi davanti alla barbarie? Nel primo discorso pubblico ho invocato esplicitamente il ritorno alla normalità istituzionale. E le mie parole non sono piaciute.

Le grandi famiglie m’invitavano specialmente per dirmelo. Io spiegavo che nel Nordeste ci sono trenta milioni di persone che vivono nell’ignoranza, nella miseria, lontani da Dio. Aiutarli a inserirsi nella società significa aiutare lo sviluppo del Nordeste e del Brasile. È nel loro stesso interesse. Avrebbero un mercato più ampio e dinamico, più prospero. Per questo sono necessarie le riforme. Rispondevano che si sentono buoni cristiani e buoni brasiliani, che si confessano e si comunicano. Insistevano nel ricordarmi che avevano regalato chiese e cappelle votive alla città, fatto molti doni ai vescovi. E dopo poco sono cessati gli inviti.

Dom Helder è amareggiato e teso, come se un pensiero lo tormentasse senza riuscire a esprimerlo. Riassume gli ultimi dati sugli analfabeti, sui disoccupati, sui sottoalimentati, sulla mortalità infantile: se non riusciamo a risanare queste piaghe il Brasile precipiterà all’inferno, dice quasi tra sé e sé. Parla sfogliando libri, appallottolando fogli di carta su cui nel frattempo è andato prendendo appunti: li legge per noi e li butta nel cestino. Passeggia incessantemente dal tavolo di lavoro ingombro all’inverosimile alla finestra. Per la seconda volta in meno di un’ora va a lavarsi le mani in un bacino riparato da un paravento; da una caraffa di vetro verdastro prende un bicchiere d’acqua che beve lentamente, senza curarsi della miriade di moscerini che fanno corona sul bordo.

Domandiamo a lui se sa dirci cosa sono quelle scritte “Deus è!” che abbiamo incontrato sulle strade. Ma sembra preoccupato da altri pensieri e liquida la risposta in poche parole: “Sono gli evangelici…”. Non sembra sapere nulla di quanto tra gli altri avrebbe rivelato anni più tardi John Perkins nel suo libro-testimonianza “The Secret History of the American Empire”, (pubblicato in Italia da MinimumFax: “Confessioni di un sicario dell’Economia”): i servizi segreti degli Stati Uniti avevano organizzato la discesa nel subcontinente di centinaia di attivisti del cristianesimo riformato, con l’obiettivo strategico di rompere il monopolio religioso cattolico, che unito alla lingua spagnola costituiva l’unità culturale dell’America Latina, la sua alterità rispetto al gigante del Nord. L’odierna, affollatissima presenza di chiese e sette protestanti in Sudamerica, ma anche la “Moral Mayority” e poi i “Tea-party” che hanno spostato a destra la politica di Washington ne sono effetti ritardati.

Infine, con quattro passi risoluti, Dom Helder torna al suo scrittoio, apre deciso il cassetto centrale, ne cava un telegramma e viene a sedersi di fronte a noi per cominciare a leggercelo. È della Segreteria di Stato vaticana e gli ordina di sottoporre qualsiasi sua iniziativa al giudizio preventivo dei superiori gerarchici. Concretamente al cardinale primate della Chiesa brasiliana, quello stesso che nei mesi scorsi ha rimesso appunto al Vaticano la richiesta di censurare Dom Helder avanzata da una minoranza dei vescovi. Firmato: Cardinale Giovanni Benelli.

Al telegramma ha poi fatto seguito una lettera che specifica i vari divieti da osservare. Il primo è non concedere interviste senza espressa autorizzazione. Dom Helder ha già annullato gli impegni fuori della diocesi e rinunciato ad andare all’Università di San Louis a ritirare una laurea ad honorem e a celebrare una messa in quella che fu la chiesa di Martin Luther King. Ora ci guarda sconsolato. Domanda a noi se tutto quanto ci siamo detti è un’intervista. Ricorda che alla diocesi di Olinda e Recife è stato ordinato da papa Montini, Paolo VI; e che Monsignor Benelli, buona fama di prelato aperto al nuovo, si è sempre professato suo amico. Esprime gratitudine per entrambi. Evidente il suo sconcerto, quando gli hanno raccontato che a Firenze, anche molti giovani di Azione Cattolica del Segretario di Stato dicono: Cardinal Benelli, Dio lo fece e buttò via i modelli…

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