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Perché gli Stati Uniti non sottovalutano più le mattane nucleari della Corea del Nord

Corea, Guam

Donald Trump è in vacanza in un golf club di sua proprietà in New Jersey, e in sua assenza alla Casa Bianca sono in corso lavori di ristrutturazione, ma la crisi coreana ciononostante non va in ferie. Anzi. Prosegue imperterrito il ping pong di dichiarazioni al vetriolo tra le due sponde del Pacifico. Ieri il presidente Usa, davanti ai reporter assiepati al Trump National Golf Club di Bedminster, ha espresso l’ultima esternazione rovente e irrituale, con cui ha sostenuto che gli Stati Uniti sono pronti a riversare sulla Corea del Nord “fuoco e furia” se non cesseranno le loro provocazioni. Nel giro di poche ore è arrivata puntuale la replica di Pyongyang. Un portavoce dell’esercito ha reso noto tramite l’agenzia di stampa ufficiale Kcna che il Paese sta contemplando un attacco missilistico all’isola americana nel Pacifico di Guam, dove ha sede un’importante base dell’aviazione a stelle e strisce, e che la minaccia potrebbe concretizzarsi ove Kim Jong un lo ritenesse opportuno.

L’escalation nei toni del confronto arriva nel momento in cui la tensione causata dall’aggressività nord coreana è alle stelle. Martedì il Washington Post ha rivelato che l’intelligence Usa ha mutato la sua valutazione sul potenziale arsenale in dotazione al Nord. Secondo la Dia, Pyongyang avrebbe già sviluppato la capacità di miniaturizzazione di una testata nucleare così da poterla installare su un missile balistico intercontinentale. Alle stesse conclusioni è giunto il Libro Bianco della Difesa giapponese, divulgato nelle stesse ore. Nella comunità degli analisti non vi è tuttavia unanimità su un altro elemento chiave: c’è chi pensa che il programma nucleare e missilistico del Nord non sia giunto allo stadio tale da aver superato un ostacolo fondamentale, ossia la capacità di un vettore di resistere alle altissime temperature che si sviluppano nella fase di rientro nell’atmosfera.

Certo è che, dopo i due test di luglio di missili balistici intercontinentali da parte di Pyongyang, le valutazioni degli Stati Uniti sono cambiate. Nessuno sottovaluta più la propaganda del regime che dichiara di essere ormai in grado di colpire il territorio continentale degli Usa. Per questo motivo negli ultimi giorni si sono moltiplicate le dichiarazioni degli alti funzionari dell’amministrazione Trump, nel classico alternarsi di bastone e carota. Il Segretario di Stato Rex Tillerson ha più volte lasciato la porta aperta ad una soluzione diplomatica, condizionata però da una rinuncia preventiva da parte del Nord ai suoi minacciosi test militari. A svolgere il ruolo del poliziotto cattivo ci ha pensato invece il Consigliere per la Sicurezza Nazionale H.R. McMaster, che ospite della rete TV Msnbc nel fine settimana ha ribadito la linea consolidata dell’amministrazione Trump: per risolvere il problema della Corea del Nord ogni opzione è sul tavolo, compresa una guerra preventiva.

Dichiarazioni bellicose a parte, gli Stati Uniti continuano a perseguire una via diplomatica per trovare una soluzione. Raccogliendo la preziosa collaborazione di Cina e Russia, che sabato hanno approvato al Consiglio di Sicurezza Onu la risoluzione proposta dagli Stati Uniti con cui sono state varate nuove sanzioni contro Pyongyang, “le più severe mai prese contro un Paese nell’ultima generazione”, secondo le parole dell’ambasciatrice Usa al Palazzo di Vetro Nikki Haley. Una misura che ha fatto infuriare Pyongyang, innescando la catena di dichiarazioni infuocate di questi giorni.

 


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