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Ecco gli Stati che hanno vinto (o hanno perso) in 10 anni di crisi

def, banche

E’ stata una crisi che ha travolto e stravolto tutto: dai valori di Borsa ai tassi di disoccupazione; dai fallimenti delle imprese alle insolvenze bancarie; dalle finanze pubbliche alle politiche monetarie, con l’apparire per la prima volta di tassi di interesse negativi sui depositi e sulle obbligazioni.

Nel decennio 2007-2017, gli asset nei bilanci delle principali banche centrali si sono triplicati, passando da 6,2 a 18,8 trilioni di dollari. Sono loro i nuovi grandi creditori globali in un sistema economico e finanziario internazionale ancora squilibrato. Persistono Paesi strutturalmente eccedentari nel commercio, dalla Germania al Giappone, a fronte di altri sempre strutturalmente deficitari, come gli Usa, la Gran Bretagna e la Francia e la domanda finale continua ad essere debole per via dei redditi da lavoro falcidiati dalla competizione e dalle delocalizzazioni produttive. Ma i surplus commerciali, i profitti e le rendite non alimentano più l’indebitamento crescente di Stati, famiglie ed imprese. Solo la Cina e la Russia, quest’ultima forzata dalle sanzioni per l’annessione della Crimea ed il sostegno ai separatisti in Ucraina, stanno modificando il loro assetto produttivo, per sostenere i consumi interni e sostituire le importazioni.

Il 3 agosto scorso, la Fed aveva asset per 4.446 miliardi di dollari, di cui 2.465 miliardi in titoli del Tesoro e 1.769 miliardi in Mortgage backed security (Mbs’): una somma pari al 23,2% del pil statunitense, quadruplicata rispetto ad una media compresa tra il 5% ed il 6%% del pil costantemente detenuta fin dal 1960. Anche la Banca del Giappone ha più che quadruplicato le sue detenzioni, passate da 1 trilione di dollari del 2007 a 4,5 trilioni a luglio scorso, cresciute dal 21,5% al 94,1% del pil. Gli asset della Banca del popolo cinese sono passati da 2,3 trilioni di dollari del 2007 ai 5,1 trilioni del giugno scorso, con un raddoppio che è stato però di gran lunga inferiore all’andamento del pil nominale, scendendo infatti dal 64,4% al 43,2%. Il sostegno di queste banche centrali all’economia, in termini di tassi e di immissioni di liquidità, è stato continuo e senza incertezze.

Solo la politica della Bce ha presentato un profilo anomalo, per via della exit strategy dalla politica monetaria eccezionalmente accomodante, già pianificata ad inizio del 2011. Dopo un incremento della liquidità, durato ininterrottamente dal luglio del 2007 al luglio del 2012, c’è stata una fortissima contrazione protrattasi da allora fino a gennaio 2015: il discorso tenuto a Londra dal governatore Mario Draghi nel luglio di cinque anni fa, quando annunciò che avrebbe fatto di tutto per salvare l’euro dal collasso, coincise con l’inizio di un lungo periodo di restrizione monetaria, ribaltato solo a partire dal marzo 2015 con il Qe, che prevede ancora l’acquisto mensile di titoli di Stato per l’importo di 60 miliardi di euro. Le altre iniziative di immissione di liquidità decise da Draghi, dalle Ltro triennali effettuate a cavallo tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012 alle T-Ltro, fino agli acquisti di CB e MBS’, non avevano neppure compensato il drenaggio di liquidità operato attraverso gli altri canali. In molte occasioni, come già era accaduto con il programma SMP finalizzato all’acquisto dei titoli pubblici, era stata esplicitamente prevista la sterilizzazione di liquidità attraverso gli altri canali.

Mentre a luglio 2007 le detenzioni complessive della Bce erano pari al 12,7% del pil dell’Eurozona, a luglio scorso erano quadruplicate, arrivando al 41,8% del pil, con attivi per 4,9 trilioni di dollari: l’Asset Purchase Program (APP) ammonta ora a 2.013 miliardi di euro, con la detenzione dei titoli pubblici a 1.690 miliardi. All’inizio del 2015, prima dell’avvio del Qe, le detenzioni della Bce erano scese ad appena 2,4 trilioni di dollari (20,9% del pil), dopo essere arrivate nel luglio del 2012 al tetto di 4 trilioni (31,3% del pil). Il drenaggio di 1,6 trilioni di dollari, pari all’10,4% del pil dell’Eurozona, è durato ininterrottamente per 30 mesi: le banche del nord Europa, che avevano ottenuto anticipazioni straordinarie di liquidità per fronteggiare la illiquidità dei mercati dopo il crollo di Wall Street, vendevano ogni genere di asset per poter rimborsare la Bce, soprattutto i titoli di Stato dei Paesi periferici, facendone crollare il valore. La speculazione si è scatenata, alimentando il sadismo sociale contro i Paesi più deboli. Gli effetti congiunti della politica monetaria e di bilancio, entrambi restrittive, sono stati fatali per molte economie europee, con una impressionante caduta dell’inflazione, passata dal +2,6% annuo dell’agosto 2012 al -0,6% del gennaio 2015.

Se tutte le banche centrali hanno drasticamente ridotto il costo del denaro per favorire i debitori ed incentivare gli investimenti, la Bce si è pure avventurata nel territorio sconosciuto dei tassi negativi (ora pari allo 0,4% su base annua) sui depositi bancari ulteriori rispetto alla riserva obbligatoria. L’afflusso di liquidità attraverso gli acquisti di titoli di Stato ha determinato rendimenti negativi su moltissime nuove emissioni, riducendo gli spread e l’onere per interessi. L’Italia, che nel 2012 aveva pagato oltre 83 miliardi di euro di interessi su un debito pubblico di soli 1.613 miliardi, quest’anno dovrebbe sborsare 65 miliardi pur a fronte di un debito di 2.260 miliardi. Il costo si è quasi dimezzato, passando dal 5,1% al 2,9%.

La immissione di liquidità e la riduzione dei tassi di interesse, unite a condizioni più stringenti sul capitale bancario ed alla debolezza dell’economia italiana, non hanno prodotto un aumento del credito al settore privato: nel marzo 2011, quello erogato alla famiglie ed alle imprese non finanziarie ammontava a 1.495 miliardi di euro, con una crescita del 5.9% anno su anno; nell’aprile scorso si era ridotto a 1.400 miliardi (-95 mld). Considerando anche la pa, la contrazione degli impieghi è stata di 131 miliardi, passati da 1.931 a 1.800 miliardi. La raccolta bancaria interna è rimasta stabile intorno ai 1.724 miliardi, ma quella in obbligazioni si è dimezzata, passando da 611 a 321 miliardi di euro. Il flusso di nuovo risparmio, la maggiore liquidità derivante dal Qe e l’avanzo commerciale hanno avuto come destinazione prevalente gli impieghi finanziari, soprattutto all’estero.

Ci sono altre implicazioni del Qe, in termini di rinazionalizzazione ed istituzionalizzazione del rischio. Gli acquisti di titoli di Stato italiani da parte della Banca d’Italia hanno sicuramente agevolato la riduzione del portafoglio dei non residenti: con detenzioni per 284 miliardi su un debito pubblico di 2.260 miliardi, ne ha assorbito il 12,5%. In Germania, invece, ci si lamenta assai del fatto che quasi la metà dell’attivo accumulato con il commercio estero, pari al 40% del pil, è ormai rappresentato da asset detenuti dalla Bundesbank e dei crediti di liquidità che questa vanta verso le altre banche dell’euro-sistema.

La Bundesbank immette liquidità comprando i titoli di Stato tedeschi, detenuti prevalentemente da investitori stranieri, accollandosi le perdite dei tassi di interesse negativi, assai elevate da quando è stato rimosso il limite all’acquisto dei titoli con un tasso negativo peggiore di quello delle detenzioni presso la Bce. Il risparmio per il bilancio pubblico tedesco non si ripercuote come perdita sui risparmiatori stranieri, ma ricade sulla Bundesbank. Quest’ultima immette altra liquidità, accreditandosi corrispondentemente nel sistema Target 2 verso le altre banche dell’euro-sistema, quando si dà corso al Qe comprando sulle piazze finanziarie tedesche i titoli di Stato di questi Paesi. E sono spesso gli stessi investitori tedeschi che vendono, per ridurre la loro esposizione al rischio esterno. La Bundesbank si ritrova così ad avere titoli di Stato tedeschi per 404 miliardi di euro, pari al 19% del debito pubblico di 2.086 miliardi.

La Fed, come si è visto, ha in portafoglio titoli della Treasury per 2.465 miliardi di dollari, a fronte di un debito federale di 21.037 miliardi, con un rapporto dell’11,7%. Il Qe della Bce è dunque molto più generoso nei confronti della Germania di quanto non lo sia stato quello della Fed, ma aggiunge liquidità dove non ce n’è affatto bisogno, per via dell’afflusso di capitali dall’estero in cerca di un porto sicuro e dell’avanzo commerciale strutturale.

L’helicopter money delle banche centrali ha salvato il mondo dalla bancarotta, ma la liquidità, i risparmi e gli investimenti sono sempre più spesso in fuga dall’economia reale: la domanda finale non aumenta ad un ritmo adeguato. Non basta più tenere a dieta i rentier, né si può tornare a crescere a debito in un contesto internazionale squilibrato: gli avanzi commerciali vanno riassorbiti con maggiore spesa pubblica, e soprattutto con salari più alti. Dopo dieci anni, festeggia chi ha continuato ad accumulare squilibri esterni e soprattutto chi ha puntato sul mercato interno, come la Cina. Solo chi ha praticato le ricette dell’austerità è ancora in mezzo al guado.



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