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Perché militari e finanza Usa incalzano Trump su Cina e Russia

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Donal Trump lo sapeva bene: per governare, vincere le elezioni non gli sarebbe bastato. Il successo di una Presidenza dipende dalla capacità di far convergere tre istanze completamente diverse tra loro. Le prime due sono rappresentative della presenza americana nel mondo: da una parte c’è il complesso militar-industriale, come lo definì già D.W. Eisenhower, Presidente dopo H. Truman, e già generale dell’US Army; dall’altra, ci sono gli interessi delle imprese multinazionali e del sistema finanziario globalizzato. Il terzo elemento, da cui deriva l’investitura politica, è rappresentato dal consenso democratico: è la pancia del Paese che vota.

Di recente, il migliore interprete della capacità di far risuonare all’unisono questi tre sistemi è stato Ronald Reagan. Dipinse l’URSS come il male assoluto, ingaggiando una escalation della spesa militare senza precedenti in tempo di pace, con il programma “Guerre stellari” basato sulle nuove tecnologie di comunicazione e di elaborazione elettronica dei dati: le ricadute, in termini di predominio geopolitico, industriale ed economico, sono state straordinarie. Reagan condivise anche la stretta monetaria di Paul Volcker, appena nominato Governatore della Fed dal suo predecessore: attirò capitali ragguardevoli dal resto del mondo, contribuendo alla nascita della “New Economy” ed all’abbandono della vecchia manifattura, destinata ai Paesi in via di sviluppo. Mantenne la promessa di ridurre le tasse sulla base della teoria di Laffer: avrebbe messo in moto la trickle-down economy, con il maggior reddito netto dei più ricchi attivatore della domanda. Il dollaro forte e la politica di bilancio straordinariamente generosa su entrambi i versanti di entrata e spesa fecero ingigantire tanto il deficit commerciale quanto quello federale. Furono gli europei ed i giapponesi a pagare, con gli interessi, il costo di tanta spregiudicatezza, con l’Accordo del Plaza: il riequilibrio americano passava dalla recessione dei partner occidentali.

Donald Trump è arrivato alla Casa Bianca con un disegno ben diverso rispetto a quello della seconda Amministrazione Obama, delineato troppo tardi per realizzarsi: cercava di isolare sia la Russia che la Cina attraverso due Accordi commerciali paralleli sul versante Atlantico (TTIP) e sul Pacifico (TPP), alienando la nuova integrazione nel settore finanziario e dei servizi alle corrispondenti alleanze militari, Nato ed Asean. Per conquistare il primo mandato, Barak Obama aveva badato solo al consenso popolare, promettendo di mettere ordine a Wall Street, di ritirare le truppe dall’Irak e di rendere obbligatoria l’assicurazione sanitaria: poté beneficiare della profonda debolezza del sistema finanziario e della frustrazione dei tanti anni di guerra voluti dai Bush, padre e figlio. Solo in vista della rielezione, forte del successo interno ottenuto con l’Obamacare e di un consistente deficit federale finanziato largamente dalla Fed, Obama si era guadagnato il sostegno incondizionato degli apparati: la riforma del sistema finanziario, introdotta con la legge Dodds-Frank, non aveva affatto zavorrato Wall Street, mentre il ritiro dall’Irak non aveva segnato un disimpegno politico e militare americano dalle aree di crisi, che anzi si erano moltiplicate a dismisura.

Anche le promesse elettorali di Donald Trump, sintetizzate nello slogan “Make America Great Again”, sono state giocate prevalentemente sul piano del consenso interno, promettendo l’abolizione dell’obbligo di sottoscrivere l’assicurazione sanitaria, un taglio consistente alla tasse sui redditi ed un piano straordinario di investimenti infrastrutturali. La preferenza per la produzione negli Usa rispetto all’import è stata considerata negativamente dall’establishment economico e finanziario americano e mondiale, che vive della globalizzazione. Sul fronte internazionale, prospettava un irrigidimento dei rapporti con la Cina ed un appeasement nei confronti della Russia: per motivi opposti, queste due opzioni confliggono con le strategie di lungo periodo dell’establishment finanziario e militare americano. Ci sono due Eldorado a far gola: le risorse minerarie della Russia ed il risparmio cinese. Ogni passo politico che riduca l’area del conflitto con la Russia, ne rafforza la capacità di sfruttarle economicamente, e di conseguenza il potenziale strategico. Ogni passo politico che allarghi l’area del conflitto con la Cina, allontana la prospettiva di accedere al risparmio cinese e di vederlo affluire a Wall Street.

Si dimentica però che la Russia e la Cina sono Stati in cui il mercato soggiace alle direttive politiche, soprattutto nelle implicazioni derivanti dai rapporti internazionali. Al contrario, negli Usa come in gran parte dell’Occidente, lo Stato deve rispettare la libertà del mercato, anche per quanto riguarda le iniziative all’estero. Così nasce la prima frustrazione dei cittadini americani, che vedono continuamente pretermesso lo sviluppo della economia interna agli interessi esteri delle multinazionali, guidate dalla prospettiva del maggior profitto lì ritraibile: così facendo, è dagli anni Ottanta che i salari e gli stipendi degli americani diminuiscono in proporzione al reddito nazionale, ed il lavoro tradizionale emigra. C’è poi una seconda, ed ancor più profonda, frustrazione: dall’intervento in Corea in poi, sono quasi sessantacinque anni idi guerre a “dividendo zero”. Gli americani non dimenticano di essere diventati la prima potenza economica, finanziaria e militare sfruttando le due Guerre mondiali combattute in Europa: si arricchirono con ogni genere di forniture agricole e di materiali bellici e non, pagati con oro e contraendo debiti. Ora, le guerre sono combattute direttamente dall’America, costano e non danno alcun ritorno all’interno: ci si deve accontentare della spesa militare, e non è poco, visto che è pari all’intera spesa pubblica italiana.

In questi mesi, il Congresso americano si sta dimostrando assai poco malleabile rispetto alle iniziative di Trump, nonostante la maggioranza repubblicana: l’abolizione dell’Obamacare è stata bocciata due volte, mentre sono state varate sanzioni nei confronti dell’Iran, della Corea del Nord e della Russia che non potranno essere eliminate autonomamente da Trump, nell’ambito dei suoi poteri negoziali con l’estero. Nel frattempo, il Russiagate, che riecheggia lo scandalo del Watergate che segnò la fine politica di Richard Nixon, va avanti. Un po’ tutti i Presidenti non allineati con l’establishment hanno avuto da penare: Nixon cercava di tirar fuori l’America dal pantano vietnamita in cui l’avevano cacciato John Kennedy e poi Lindon B. Johnson, e parimenti dovette arrendersi alla debolezza del dollaro, denunciando unilateralmente gli Accordi di Bretton Woods che ne prevedevano la convertibiltà internazionale in oro. Lo stesso trattamento fu riservato a Bill Clinton: non solo non riuscì mai a far passare la sua proposta in materia di assistenza sanitaria universale, ma ebbe a soffrire per un possibile impeachment per aver mentito sui rapporti con Monica Levinsky. Tutto cessò quando Clinton prese la decisione di intervenire militarmente in Bosnia, pur senza aver ricevuto alcun avallo dall’Onu, sulla base dell’inedito “dovere di proteggere” una popolazione civile quando è vittima di massacri.

A favore di Trump, in questi mesi, il dato più favorevole è rappresentato dall’indebolimento del dollaro. Se n’è rallegrato ufficialmente, perché favorisce la produzione interna a discapito dell’export: un paradosso, perché si compiace per gli effetti della debolezza della sua Presidenza. Meglio così, però, che rischiare ancora un rally di Wall Street, con un possibile crollo, ed un dollaro troppo forte che faccia deragliare nuovamente i conti con l’estero. La decisione presa recentemente da Trump di mantenere le truppe americane in Afganistan, nonostante il palese fallimento di una campagna che dura ormai da sedici anni, è un atto di realismo politico: ritirarsi oggi sarebbe una sconfitta strategica in cambio di nulla. Il terrorismo jihadista, invece, griderebbe alla vittoria.

C’è stato un periodo, nel secondo Dopoguerra, in cui la politica americana riusciva a conciliare gli interessi strategici all’estero con la promozione delle sue industrie: il Piano Marshall ne fu il simbolo. L’immagine che ne derivava era quella di un’America generosa e benefattrice. Da tempo, l’uso dello strumento militare comporta da anni costi molto elevati a carico prevalentemente del contribuente, a fronte di ben pochi risultati politici e di nessun ritorno economico. Non per caso, Trump ha sollecitato gli alleati della Nato ed i 40 Paesi arabi convenuti a Rijhad, a farsi maggior carico delle spese militari. Da tempo, le imprese vanno all’estero dove il costo del lavoro è più conveniente, la tutela ambientale è meno costosa ed il regime fiscale più conveniente. La finanza americana va in giro per il mondo per cogliere al volo le migliori occasioni, realizzando veloci guadagni. Sono queste le due contraddizioni americane che Donald Trump ha di fronte. Senza risolverle, sarà ben difficile raggiungere il suo obiettivo: “Make America Great Again”.


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