Ieri una portavoce della Commissione europea, Vanessa Mock, ha detto che Bruxelles sta riflettendo sul miglior modo “per affrontare la tassazione digitale”. Lo ha precisato per commentare le dichiarazioni del ministro francese delle Finanze, Bruno Le Maire, che ha messo nel mirino la pioniera della sharing economy Airbnb: “Occorre esigere da Airbnb ed altri giganti hi tech un giusto contributo al Tesoro pubblico”. Qualche subbuglio s’avverte anche in Italia. Ecco perché.
IL REPORT
Una bacchettata, neanche tanto imprevista. L’ufficio parlamentare di bilancio (Upb), un organismo indipendente che ha il compito di svolgere analisi e verifiche sulle previsioni macroeconomiche e di finanza pubblica del governo, nel suo ultimo report giudica sterile la manovra dell’esecutivo Gentiloni per contrastare l’elusione fiscale dei colossi di Internet a partire da Google e Facebook.
LA NORMA
Nella manovra correttiva dello scorso aprile infatti è stata introdotta una norma per favorire la “regolarizzazione fiscale di società non residenti appartenenti a gruppi multinazionali attivi in Italia ma senza una stabile organizzazione nel nostro Paese”. Anche se non direttamente la norma riguarda colossi come i maggiori over the top – Google e Facebook – che nel 2015 dichiaravano ricavi in Italia per appena rispettivamente lo 0,3% e lo 0,1% di quelli europei, a fronte di transazioni localizzate nel nostro Paese stimate dall’Upb in circa il 2,4% e il 2,8%. Pochi spiccioli, insomma, rispetto al reale fatturato che i due colossi del web maturano nella rete. Basti pensare che le due società nel nostro paese detengono quasi il 50% di un mercato che vale 2,3 miliardi di euro in base ai dati dello scorso anno elaborati dall’Osservatorio Internet Media del Politecnico di Milano.
IL GIUDIZIO DEI TECNICI
La procedura introdotta dal governo viene giudicata dai tecnici dell’Upb come “una sorta di sanatoria preventiva e volontaria, con una regolarizzazione agevolata delle posizioni fiscali pregresse e la garanzia per gli anni futuri di un trattamento basato sull’accordo e la collaborazione tra impresa e Amministrazione attraverso l’ammissione al regime di adempimento collaborativo introdotto nel 2015”.
LE CRITICHE
Ma per gli analisti dell’Ufficio parlamentare di bilancio vi sono degli elementi critici che renderebbero la norma di difficile applicazione, in particolare ciò che manca è un coordinamento internazionale che rende “oggettiva la difficoltà dei singoli Paesi di risolvere le complesse questioni tributarie legate alla diffusione dell’economia digitale.
LE DIFFERENZE
La disposizione, presentata come una imposizione sulle imprese digitali (web tax), adotta un approccio differente rispetto ad altre proposte e appare un più generale strumento antielusione e antiabuso diretto a imprese multinazionali, senza discriminare tra imprese digitali e non digitali”. Ma non basta. “Si è preferito incentivare l’adempimento fiscale volontario – si legge nel report – legato quindi a una agevolazione. Diversamente il Ddl 2526 (il cosiddetto “Ddl Mucchetti”,ndr), che interviene sui medesimi temi ed è attualmente in discussione al Parlamento, prevede una penalizzazione, con forte incentivo per le imprese a regolarizzare la propria condizione di stabile organizzazione per l’elevata entità del prelievo alla fonte in caso di mancata regolarizzazione”.
I DUBBI
Insomma la web tax all’italiana che vuole colpire le imprese digitali è stata studiata male, anche perché un singolo Paese senza un’azione omogenea a livello europeo rischia di fare un buco nell’acqua con questo tipo di manovre. Anche se il problema esiste e dovrebbe essere affrontato di petto. Ma l’efficacia delle norme italiane è messa in discussione anche perché così facendo proprio “le imprese digitali potrebbero essere incentivate a rimanere “nell’ombra” sfruttando i margini di elusione dei quali dispongono e cercando di differire la contrattazione dell’onere tributario”. In pratica la convenienza ad aderire alla procedura sarà “tanto maggiore per imprese per le quali un accertamento ordinario è più probabile e rischioso; la convenienza per le imprese, e per il Fisco, dipende anche dalla valenza del vincolo, previsto dalla norma, di 50 milioni di ricavi prodotti in Italia in uno dei tre anni precedenti”.
LE CONCLUSIONI
In conclusione, la misura contenuta nella manovra dello scorso aprile appare un tentativo di reagire alle pratiche più aggressive di concorrenza fiscale di altri paesi e per salvaguardare livelli minimi di gettito. Resta da valutare il trade-off tra l’efficacia, in termini di reale emersione di basi imponibili, di misure ad hoc e la coerenza con i principi generali del sistema tributario. Insomma è una sorta di pannicello caldo che di certo non risolve il problema di come recuperare gettito fiscale da colossi come Google e Facebook che puntano proprio ad una mancata governance europea che disciplini i guadagni di internet e dintorni.