Dopo le giornate scandite dagli scontri di Gerusalemme, seguiti alla messa in atto delle misure di sicurezza per mano del premier dello Stato di Israele Benjamin Netanyahu con l’obiettivo di regolare l’accesso alla Spianata delle Moschee dopo l’attentato terroristico del 14 luglio, nella Città Santa non sono ancora stati superati i venti di tensione. Gli incidenti sono infatti proseguiti in Cisgiordania, durante le preghiere islamiche del venerdì.
L’APPELLO DI PAPA FRANCESCO
Tutto ciò nonostante il chiaro appello di Papa Francesco, lanciato dal balcone di Piazza san Pietro durante l’angelus del 23 luglio scorso, in cui ha invitato a “moderazione e dialogo”, oltre a pregare “affinché il Signore ispiri a tutti propositi di riconciliazione e di pace”. Parole a cui hanno fatto seguito, pochi giorni dopo, le prese di posizione della Santa Sede in favore del mantenimento dello “status quo” e del riconoscimento della condizione speciale di Gerusalemme, da sostenere a livello internazionale “al fine di garantire la libertà religiosa e di coscienza”.
L’ATTENTATO DEL 14 LUGLIO
L’attentato ha infatti causato le morti di due agenti drusi dello Stato di Israele, deceduti negli scontri a fuoco, oltre a quelle dei tre attentatori palestinesi, e le proteste, scoppiate dopo la decisione di limitare l’accesso al sito a persone con più di cinquant’anni di età, hanno fatto scoppiare un’escalation di violenza, da cui sono derivate le morti di altri cinque palestinesi e di tre israeliani. Le rivendicazioni dell’attentato si sono rivelate incerte, attribuite ad Hamas o a miliziani dello Stato Islamico.
L’INTERVENTO DELL’INCARICATO VATICANO ALL’ONU
Le posizioni degli organi diplomatici vaticani sono state rese note in diverse occasioni, come l’intervento alle Nazioni Unite da parte dell’incaricato d’affari della Missione vaticana Simon Kassas, in cui ha ribadito il sostegno per la “soluzione dei due Stati”, invitando a seguire la strada di “trattative dirette tra israeliani e palestinesi” con il “sostegno della comunità internazionale”, auspicando inoltre che “tutte le fazioni palestinesi mostrino una volontà politica unitaria lavorando insieme”.
L’INCONTRO TRA MONS. GALLAGHER E L’AMBASCIATORE PALESTINESE
L’intervento di Kassas ha fatto seguito al colloquio, avvenuto il giorno precedente, tra il segretario dei rapporti con gli Stati del Vaticano Paul Richard Gallagher (nella foto) e l’ambasciatore dello Stato di Palestina presso la Santa Sede Issa Kassissieh. Incontro che ha portato il diplomatico vaticano a confermare l’appoggio allo status quo, alla libertà religiosa e all’accesso ai luoghi sacri, e l’ambasciatore, da parte sua, a informarlo sul pericolo delle pressioni esercitate dagli israeliani nei confronti dei palestinesi, con riferimento alle restrizioni per l’accesso alla Moschea di Al-Aqsa, e avanzando alla comunità internazionale la richiesta di essere più chiara nell’assunzione di responsabilità verso il problema.
LO STATUS QUO RICONOSCIUTO DALLA SANTA SEDE
Parlando di status quo ci si riferisce alla gestione dei luoghi sacri in Terrastanta, di cui la Spianata delle Moschee rappresenta uno dei più importanti, da sempre al centro degli scontri. La Santa sede riconosce la posizione dell’Unesco e quella assunta dalla comunità internazionale nel 1967, e allo stesso modo legittima la centralità della “sovranità territoriale” dei due Stati. Ma lo “status speciale” invocato dal Vaticano è legato, per l’appunto, al valore religioso rivestito dai luoghi di Gerusalemme. Dopo le tensioni alla Spianata delle Moschee anche l’Università di Al-Azhar ha annunciato di voler convocare, per il prossimo settembre, una Conferenza internazionale su Gerusalemme.
LA DECISIONE DI RIMUOVERE LE MISURE DI SICUREZZA
Ed è perdendo la pazienza di fronte ai ministri del Gabinetto di difesa schierati sulla linea più dura, secondo quando racconta l’Huffington Post, che il premier Netanyahu avrebbe deciso rimuovere le misure di sicurezza, smantellando i metal detector. “Ora basta! Non possiamo sbattere la porta in faccia all’inviato del presidente degli Stati Uniti”, avrebbe esclamato durante il colloquio, ricevendo le critiche di ministri ultra-nazionalisti e di alcuni compagni di partito, ma incassando allo stesso tempo il plauso dell’inviato americano in Medio Oriente Jason Greenblat. Anche se si parla di una sostituzione dei metal detector con telecamere a tecnologia avanzata, sgradite tanto quanto i primi.
IL RIAVVICINAMENTO TRA ISRAELE E RIAD
La vicenda, stando alla ricostruzione del quotidiano online statunitense diretto in Italia da Lucia Annunziata, mette in mostra “le due anime del Governo Netanyahu”, che grazie al forte legame personale instaurato con Trump si starebbe decisamente rivolgendo a un riavvicinamento con l’Arabia Saudita, in particolare dopo il viaggio del presidente americano a Riad. Al punto da ipotizzare una prossima apertura di una sede diplomatica saudita a Tel Aviv.
GLI ECCESSI MEDIATICI E LA RETE DIETRO L’ATTENTATO
Tuttavia secondo il ricercatore dell’Inss dell’Università di Tel Aviv Kobi Michael, contattato da Il Foglio, la copertura mediatica, rispetto all’entità dei fatti, “è totalmente esagerata”. La causa di questi eccessi sarebbe dovuta al “riflesso di una campagna ben organizzata da parte dell’islam politico”. Colpevoli lo sceicco Raed Salah, capo del Movimento islamico, oltre ad Hamas e alla Turchia di Erdogan, “tutti espressione della Fratellanza musulmana”. Assieme agli “sciiti radicali con l’Iran, la Siria e i loro alleati”, ai “jihadisti sunniti come l’Isis e al-Qaida”, e per ultimi “i paesi sunniti moderati”. A sette anni dall’inizio delle primavere arabe infatti, chiosa il ricercatore, “non sono più gli Stati a contare ma i fronti in campo”