“Saranno fatti suoi” è l’inevitabile, asciutta reazione di Claudio Risé alla richiesta di un commento alla notizia che padre Jorge Mario Bergoglio, quando aveva 42 anni, per sei mesi, una volta a settimana, ha frequentato una psicoanalista ebrea. Consultazioni, rivela Francesco, che lo hanno molto aiutato. L’allora provinciale dei gesuiti di Argentina diventato successore di Pietro, nell’intervista contenuta nel libro con il sociologo francese Dominique Wolton, Politique et société, in uscita il 6 settembre, non riferisce di un percorso di analisi in senso stretto, limitandosi a definire quegli incontri delle “consultazioni”. Sia come sia: l’impressione di trovarsi di fronte a una confessione rivoluzionaria da parte di un romano pontefice è diffusa. Non per il professor Risé, psicanalista di fama internazionale: “Mi risulta che siano molti i rappresentanti della Chiesa, anche ad alto livello, che hanno avuto un’esperienza psicoanalitica”. Dove interesse culturale e spirituale si intrecciano, inevitabilmente, in una relazione che indaga il profondo attraverso volti e figure concrete.
Avverte: “Il rapporto del cristianesimo con la psicoanalisi, in ambito cattolico e protestante, è una storia ancora tutta da scrivere. Una storia che ha attraversato il Novecento”. Meno conflittuale di quanto offra la narrazione più diffusa. E magari ci voleva il Papa “preso dalla fine del mondo” a riconciliare definitivamente una vicenda, quella psicoanalitica, che ha avuto aperture da Pio XII in avanti. Passando per precisazioni e grandi attenzioni da parte degli scritti magisteriali.
Non serve scomodare i piani alti della Chiesa mater et magistra. Lo stesso Risé ricorda i suoi contatti con il barnabita Antonio Gentili, gli incontri e i seminari in case di spiritualità cattolica dove l’approccio psicologico ai mali dell’uomo viene guardato con attenzione. E non da oggi. Di formazione e orientamento junghiano, Risé non dimentica come lo stesso Carl Gustav Jung, intorno agli anni Quaranta, evidenziasse la differenza tra la cura dell’anima e la psicologia. Che è il discrimine essenziale per la Chiesa, preoccupata che il terapeuta non invada campi che non gli sono propri. Jung ne era consapevole: la guarigione, amava indicare, è possibile solo Deo concedente. Poi ognuno faccia il suo mestiere.
Certo: tutti i percorsi spirituali vanno trattati con grande attenzione, avverte il professore. E lo sottolinea lo stesso Francesco, quando ricorda di quell’esperienza di consultazioni, forse di analisi, con una dottoressa “che è sempre rimasta al suo posto”. Insomma, par di capire: nessuna investigazione sulla fede. Ci mancherebbe. Anche se è forte la tentazione di ricordare le domande di un Nanni Moretti psicologo al Michel Piccoli, pontefice eletto e recalcitrante fino alla rinunzia, in Habemus Papam, film preveggente di molte vicende intorno a San Pietro.
Il professor Risé che, appunto “perché son fatti suoi”, di indagare i sentieri che hanno portato il quarantenne Bergoglio a consultare un’analista ha niente affatto interesse a commentare, ricorda che anima, psiche e spirito convivono. Ricerca di Dio e fratture psichiche. Con buona pace degli “ortopedici dell’anima”, come li definiva Michel Foucault, quelli che pretendono che l’anima debba star su sempre diritta, e non accettano che possa avere zone di bianchi e neri non definiti, “con crampi e stiramenti, come in tutte le cose umane”.
Così, forse non è così inaspettato nella personalità di un Papa che delle zone grigie come periferie da accompagnare ha fatto uno dei punti di attenzione rilevanti, che a 42 anni con naturalezza, forse preoccupato per certi aspetti del suo operato come responsabile dei gesuiti di Argentina, si sia rivolto a un’analista per smussare, farsi aiutare a “curare” certe condotte di governo da lui stesso definite “brusche e personaliste”. È nell’anima – accenna Risé i contorni di un discorso ben più ampio – il luogo dell’incontro tra esperienza religiosa e psicoanalitica. È la storia dello spirito: “È difficile che cristianesimo e psicoanalisi possano continuare a ignorarsi o a fingere di farlo”. Nell’evidenza di una complessità umana che si chiama realtà.