Il bitcoin ha riconquistato quota 4.000 dollari. Il trauma della messa al bando in Cina delle piattaforme che scambiano criptovalute è stato superato con sorprendente rapidità. Venerdì scorso il bitcoin aveva toccato un minimo di 2.951,15 dollari dopo aver perso il 14,7% in una settimana. Lunedì è arrivato a un massimo di giornata di 4.064,36 dollari, mettendo a segno un rialzo del 9%, guadagnando 1.000 dollari in tre giorni. Chi ha dato per morto il bitcoin si deve ricredere, mentre si susseguono le notizie della sua diffusione nella vita di tutti i giorni. L’ultima arriva dal Sudafrica, dove la seconda catena della grande distribuzione, Pick n Pay, ha cominciato ad accettare i pagamenti in bitcoin in uno dei suoi supermercati. Un esperimento che potrebbe essere esteso a tutto il Paese e negli altri in cui è presente: Zimbabwe, Lesotho, Namibia, Mozambico e Zambia.
Nel fine settimana il bitcoin ha anche agevolmente rintuzzato il colpo basso sferrato dal numero uno di Jp Morgan Jamie Dimon, che lo aveva definito “una truffa”, minacciando di licenziamento i suoi dipendenti che avessero fatto trading con la criptovaluta. Poiché tutte le transazioni in bitcoin sono trasparenti (e questo rende risibile l’accusa di essere la moneta della malavita), è saltato fuori che venerdì scorso, il giorno in cui la criptovaluta, sia pure per breve tempo, è scesa sotto quota 3.000, Jp Morgan Securities è stato uno dei maggiori acquirenti di bitcoin Xbt, un Exchange Traded Note (Etn) quotato alla borsa di Stoccolma: si tratta di uno strumento in corone svedesi che replica l’andamento del sottostante, vale a dire il cambio bitcoin-dollaro, sul modello degli Etf. Stessa cosa ha fatto Morgan Stanley. Complessivamente quel giorno le due banche americane hanno fatto acquisti di bitcoin Xbt per 3 milioni di euro.
Qualche malpensante potrebbe dire che Dimon ha fatto la sua sparata per comprare bitcoin a prezzi più bassi, ma è più probabile che gli acquisti siano avvenuti suo malgrado. Ci sono clienti di Jp Morgan che chiedono espressamente di investire parte del loro portafoglio in criptovalute e la banca non può fare altro che accontentarli nonostante l’ostilità del numero uno.
Vista la forza del bitcoin di fronte alle avversità, gli osservatori cominciano a domandarsi se la Cina abbia fatto bene a cercare di mettere i bastoni fra le ruote. Aurelien Menant, fondatore e ceo dell’exchange Gatecoin, basato a Hong Kong, ha dichiarato a Cnbc che “il mercato si sta rendendo conto che quello che succede in Cina non importa più perché gli exchange locali da tempo non dominano più l’attività di trading, mentre la liquidità più matura degli operatori istituzionali in Giappone, Corea del Sud ed Europa sta fornendo la spinta al prossimo ciclo dominato dal toro”. Menant si frega le mani perché il porto più vicino dove i bitcoiner cinesi possono spostare la loro attività è Hong Kong. Allo stesso tempo, il ceo di Gatecoin tiene a sottolineare che “la repressione riguarda le attività degli exchange locali perché non rispettano la regolamentazione finanziaria cinese ma non si tratta di una repressione del bitcoin e della tecnologia blockchain”.
Sarebbe infatti controproducente se Pechino finisse per rimanere arretrata sul fronte di questa tecnologia, che sta sempre più attirando l’attenzione degli attori tradizionali e istituzionali. Al punto che la Banca dei Regolamenti Internazionali (Bis), in pratica la banca delle banche centrali, ha pubblicato un report sulle criptovalute firmato da Morten Bech e Rodney Garratt. C’è l’avvertenza che le opinioni espresse nell’articolo non riflettono necessariamente quelle dell’istituto, ma la sua rilevanza non può essere sottovalutata. Secondo Bech e Garratt, le banche centrali non possono ignorare la crescita delle criptovalute e a un certo punto dovranno valutare se per loro ha senso emettere proprie valute digitali.
A pensarci bene è quello che ha intenzione di fare l’Estonia con l’estcoin, progetto bocciato pochi giorni fa senza mezzi termini dal presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi. Il report sottolinea che l’emissione di criptovaluta da parte delle banche centrali potrebbe essere un buon modo per digitalizzare i contanti. Dal processo verrebbero però tagliate fuori le banche commerciali, che attualmente fanno da intermediarie per i consumatori, che tramite loro ricevono il denaro emesso dalla banche centrali. Una vera rivoluzione.
Pubblicato su MF/Milano Finanza, quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi