Alessandro Di Battista, Dibba per gli amici, o il Che Guevara de’ noantri per chi scherza sulla sua passione per le moto e per l’America del Sud, che lo accomuna al ricordo del famoso guerrigliero argentino immortalato a Cuba con un mausoleo, medita dunque di contendere al più giovane Luigi Di Maio la candidatura pentastellata a Palazzo Chigi. Il suo programma è al tempo stesso meno ambizioso e più storico di quello coltivato ed esposto a Cernobbio dal vice presidente della Camera, Di Maio appunto, che pensa di fare dell’Italia una “Nazione Smart”, tutta tecnologica, nervosa, scattante, per niente ingombrante, infilabile anche nel più piccolo spazio lasciato dai paesi concorrenti nel mercato che siamo ormai abituati a chiamare globale.
Il simpatico Dibba, che una volta in televisione incantò persino l’esigentissimo Eugenio Scalfari per la sua parlantina, ed anche per la capacità di incassare furbescamente con sorrisi e stupori le critiche che gli rivolgeva il socratico fondatore della Repubblica, quella naturalmente di carta, è fermo alle preoccupazioni di Massimo Taparelli, marchese d’Azeglio. Che dal 1849 al 1852 precedette addirittura Camillo Benso di Cavour alla presidenza del Consiglio dell’allora Regno di Piemonte e Sardegna e disse, al compimento del Risorgimento, che “fatta l’Italia, bisogna fare adesso gli italiani”, dotandoli di “doti virili” e liberandoli dei tanti vizi accumulati in secoli di divisioni e sottomissioni: l’indisciplina, l’irresponsabilità, la pusillanimità, la disonestà ed altro ancora.
Di Battista ha maturato sui banchi parlamentari di Montecitorio e sulle moto che usa viaggiando per la penisola la stessa certezza di d’Azeglio, che cioè “il problema dell’Italia sono gli italiani”. E credo, obiettivamente, che non gli si possano dare tutti i torti, come dimostra anche il fatto che quasi un terzo degli italiani, appunto, non dei francesi o dei tedeschi o degli spagnoli vota per un partito come il Movimento delle cinque stelle ridendo, piangendo, imprecando al seguito del comico di professione Beppe Grillo. Che sarà magari davvero più simpatico e persino migliore di un Silvio Berlusconi o di un Matteo Renzi, senza volere scomodare Massimo D’Alema, Pier Luigi Bersani, Giuliano Pisapia o, a destra, Matteo Salvini e Giorgia Meloni, ma resta avvinto come l’edera alla sua professione di comico, per cui ogni volta che parla, insulta o elogia – assai di rado – non si riesce mai a capire se faccia sul serio o per scherzo. E la stessa sensazione si avverte quando si osservano i suoi adepti alla guida delle città dove gli elettori li hanno mandati: per esempio, a Roma.