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Ecco come la Germania svolta a destra su economia, Europa e immigrati

È successo di nuovo. Titoloni a nove colonne e paginate dei giornali, così come peana televisivi, smentiti in pochi minuti dalle urne. Stavolta quelle tedesche. A nulla sono servite le figuracce rimediate prima con il referendum sulla Brexit del giugno 2016, poi con le presidenziali Usa che Hillary Clinton avrebbe dovuto vincere facilmente. E stavolta con alcune aggravanti. Il campanello d’allarme era suonato già nell’autunno del 2016: il voto in Meclemburgo-Pomerania. E superata la bolla Schulz, stavolta i sondaggi si sono dimostrati estremamente precisi.

Ma niente, ignorando tutti i segnali e confondendo ancora una volta i propri desideri con la realtà, il giornalista collettivo, con la sua pletora di commentatori e presunti “esperti”, ha continuato a proporre al pubblico la rassicurante narrazione di una marcia trionfale della cancelliera Angela Merkel verso il suo quarto mandato e di una Germania immune al cosiddetto “populismo”. Loro, i tedeschi, sono razionali. Perché mai gli elettori di un Paese così ricco ed efficiente non avrebbero dovuto mostrare gaudenti la loro riconoscenza alla saggia leadership della cancelliera? Da un paio d’anni è scoppiato questo tardivo amore dell’establishment e dei mainstream media europei (e italiani in primis) per Angela Merkel. Forse perché si sentono orfani del presidente americano Obama. Fatto sta che in tempi non troppo lontani veniva dipinta come un’austera megera che si divertiva a bacchettare i paesi spendaccioni, mentre ultimamente, quasi per far dispetto al vituperato Trump, è stata incoronata addirittura “nuova leader del mondo libero”.

Ebbene, CDU/CSU della Merkel – 9 punti percentuali; SPD di Schulz dissanguata; Alternative für Deutschland (AfD) terzo partito con il 13%, i liberali dell’FDP al 10%. La Germania svolta a destra su economia, Europa e immigrazione. Esattamente come l’Olanda nel marzo scorso. Le analogie sono evidenti. Tenuta ma con molte perdite del centrodestra di governo del premier uscente Mark Rutte (da 41 a 33 seggi); crollo fragoroso dei socialisti; il partito di Wilders secondo (da 15 a 20 seggi). Certo, il risultato di AfD è più d’effetto perché partiva da zero, ma in entrambi i casi si tratta di uno spostamento a destra del quadro politico e probabilmente dell’asse del futuro esecutivo. Da allora l’Olanda è ancora senza, ma anche la Merkel avrà il suo bel da fare per dar vita a una coalizione di governo, probabilmente inedita e non priva di contraddizioni.

Proprio la lettura completamente fuorviante dell’esito delle elezioni olandesi ha impedito di capire cosa stava arrivando in Germania. Ci fu presentato come la riscossa dell’Europa dopo lo schiaffo della Brexit, come la dimostrazione che il “populismo” si sconfigge con l’europeismo, con “più Europa”. Tuttavia, la realtà era ben diversa. Se Rutte era riuscito a limitare le perdite, riconquistando la maggioranza relativa, e ad arginare l’avanzata di Wilders, era perché aveva accettato di confrontarsi sul suo campo, di interpretare e fare proprie le preoccupazioni dei suoi elettori, senza negare l’evidenza di alcuni problemi. La lezione del voto olandese è che il miglior modo per difendere l’Ue è rispondere alle preoccupazioni dei cittadini e correggere la rotta, non snobbarli trincerandosi dietro un europeismo di maniera.

Il nuovo panorama politico in Germania avrà effetti anche sulla politica europea di Berlino. Vedremo in che misura ma c’è da attendersi una frenata, quanto meno una pausa di riflessione sulle prospettive di maggiore integrazione, dall’unione economica (bilancio comune e ministro delle finanze unico) a quella bancaria, per non parlare delle ipotesi di condivisione del debito… E austerità austerità austerità: basta flessibilità e aiuti ai Paesi-cicala, stop al Quantitative Easing della Bce.

Angela Merkel ha vinto? Sì, ha conquistato il suo storico quarto mandato, ma non in modo così trionfale come veniva annunciato alla vigilia. Esce ridimensionata, indebolita da una vittoria dal retrogusto amaro, e la sua leadership viene messa in discussione. E’ accusata di aver “socialdemocratizzato” il suo partito. La sua marcia indietro sull’accoglienza (“ciò che è successo nel 2015 non deve ripetersi e non si ripeterà”, ha detto a Monaco chiudendo la campagna elettorale) non è bastata a fermare l’emorragia di voti verso la destra liberale e la destra nazionalista. Voti in uscita verso AfD per le politiche sull’immigrazione. Voti in uscita verso l’FDP di Lindner sui temi economici ed europei. Il quotidiano economico tedesco Handelsblatt parla addirittura di “un’anatra zoppa”. Non sorprenderebbe se si aprisse nella CDU/CSU la corsa alla successione e se la cancelliera decidesse di passare la mano anzitempo, già a metà del suo quarto mandato.

Gli storici saranno così generosi con la sua figura come la cronaca degli ultimi anni? Certo, Angela Merkel ha guidato il suo Paese con abilità politica, equilibrio da democristiana, garantendo stabilità, crescita economica, espansione commerciale e leadership in Europa. Va però ricordato che le impopolari riforme economiche e sociali che hanno rimesso in moto la locomotiva tedesca recano in calce la firma dell’ex cancelliere Gerard Schröder. E che Angela sembra aver conquistato il trono di leader dell’Ue più per longevità politica, ovvero per esclusione, che per i suoi successi europei. Non si può certo affermare che sotto la sua leadership l’Unione europea abbia affrontato e superato brillantemente crisi come quella finanziaria del 2008, quella del debito greco del 2010 o quella dei migranti del 2015. Né che abbia compiuto sensibili passi avanti dal punto di vista dell’integrazione, dell’efficienza istituzionale e della sua proiezione nel mondo. Anzi, proprio lo scorso anno ha perso uno dei suoi membri più importanti, il Regno Unito (la seconda economia e la prima potenza militare dell’Unione), per responsabilità non solo dei leader britannici.

È successo, inoltre, che l’onda lunga della Brexit e di Trump è arrivata anche nel cuore del Vecchio Continente, nonostante ci avessero assicurato che si trattava di fenomeni peculiari di Uk e Usa. I temi, le preoccupazioni che hanno spinto i britannici a votare Leave e gli americani a portare Donald Trump alla Casa Bianca sono gli stessi che fanno avanzare Wilders in Olanda e da oggi anche AfD in Germania. E si possono intravedere anche in tornate elettorali celebrate invece come vittorie dell’europeismo. Delle ultime elezioni olandesi abbiamo già parlato. In Francia, il presidente Emmanuel Macron ha avuto la meglio sulla Le Pen non solo per il suo europeismo, ma soprattutto grazie alla sua alterità rispetto ai partiti tradizionali (in parte proprio come Trump), ad una certa critica della globalizzazione e ad una buona dose di sentimento patriottico (il nome stesso del suo movimento, “En Marche!”, richiama l’inno nazionale).

Il concetto nazionalista di “America First” e le posizioni di Trump, per esempio sull’immigrazione, sono molto più popolari in Europa di quanto le nostre élites vogliano ammettere. Ci avevano raccontato una Germania immune al virus del populismo e del nazionalismo, che solo pochi mesi fa aveva rischiato di travolgere la Francia. E invece, ci troviamo oggi a commentare un voto fortemente anti-establishment. La celebrata stabilità politica del paese leader in Europa viene messa in discussione dal successo di terze forze che intendono sfidare lo status quo; dall’ingresso nel Bundestag, per la prima volta nel dopoguerra e come terzo partito, di una forza politica che si colloca a destra dei cristiano democratici; e da una probabile coalizione di governo mai sperimentata a livello nazionale. “È la fine dell’eccezionalismo tedesco”, ha scritto Gideon Rachman sul Financial Times. Il successo di AfD “dimostra che il paese non è immune al virus populista”.

Come è potuto accadere, nella ricca ed efficiente Germania? Due sono le possibili spiegazioni. Forse ricchezza e migliori prospettive economiche non sono distribuite equamente. Anche in Germania esiste una quota non irrilevante di “dimenticati”, gli stessi che hanno portato Trump alla Casa Bianca. Sia le prime analisi sulla composizione del voto (AfD raccoglie consensi soprattutto tra operai e disoccupati), sia sulla sua distribuzione territoriale (AfD e Linke forti soprattutto nella Germania dell’Est) sembrano confortare questa tesi. Ma forse non c’è solo disagio economico ed esclusione sociale. Forse bisogna cominciare a considerare anche un voto culturalmente motivato, per la riaffermazione della propria identità nazionale. Molti elettori che non hanno perso il lavoro e il cui tenore di vita non è peggiorato negli ultimi anni sentono comunque messa in pericolo l’identità culturale e socio-economica dei luoghi in cui vivono. Avvertono di non avere voce, di non essere rappresentati, di essere esclusi dal dibattito e dalle agende sempre più “globali” delle élites. E’ il profilo dei “dimenticati”, non del tutto sovrapponibili ai poveri. Come molti elettori laburisti hanno votato Leave e molti elettori di Obama hanno abbandonato Hillary per Trump, così in Germania molti elettori della SPD hanno votato AfD o Linke. La nuova divisione politica nelle democrazie occidentali è “esclusi” contro “inclusi”, non più destra/sinistra.

Peccato che dal jukebox del giornalista collettivo continui ad uscire in automatico la stessa musica: nazionalismo e populismo come accuse intercambiabili e, visto che siamo in Germania, scatta l’aggravante del neonazismo. La destra è sempre “xenofoba” e “razzista”. Nemmeno l’attributo “estrema” è più sufficiente per esprimere il disprezzo delle élites. Ora bisogna chiamarla “ultradestra”. Come gli ultracorpi della famosa invasione…

In realtà, rispetto al Front National di Marine Le Pen o a Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, destre più tradizionali con eredità ancora ingombranti, AfD in Germania e il PVV in Olanda sono destre nuovissime, che sfuggono alle vecchie categorie interpretative e quindi spiazzano analisti e commentatori. Si tratta di partiti quasi monotematici, bi-tematici (anti-immigrazione, soprattutto islamica, e anti-europeisti). Certamente nazionalisti (ma liberale il partito di Wilders), dichiarano di voler difendere libertà civili e democrazia dalla minaccia islamica, che vedono come il nuovo fascismo. Possono attrarre dal libertario all’estremista di destra. Al vertice di AfD, per esempio, troviamo una leader omosessuale con un passato in Goldman Sachs come Alice Weider. Tra eletti e militanti possono esserci xenofobi e neonazisti, ma come scrive la Frankfurter Allgemeine Zeitung, “l’idea che solo nazisti e razzisti scelgano l’AfD è sbagliata. A meno di non ritenere tali gli elettori (oltre 1,5 milioni) che hanno votato AfD provenendo da CDU e SPD”.

Se la nuova coalizione di governo non sarà in grado di soddisfare le esigenze di cambiamento emerse dalle urne, le opposizioni, AfD in primis, guadagneranno consensi. E se la Merkel si dimostrerà troppo prudente, il turno di un altro leader arriverà prima di quanto possiamo immaginare.


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