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Vi racconto cosa sta succedendo in Iran. Parla Ahmad Rafat

Il prossimo anno ricorrerà il quarantesimo dal ritorno trionfale di Khomeini in Iran. Qual è lo stato di salute della Repubblica islamica in prossimità di questa importante scadenza? Molti segnali evidenziano come l’Iran sia più potente che mai, specie dopo il venir meno delle sanzioni internazionali a seguito della sigla del JCPOA, l’accordo su nucleare preso con la comunità internazionale, e dopo l’annunciato trionfo di Teheran nella guerra civile siriana, nella quale si è schierata a fianco del presidente Assad, permettendogli – insieme alla Russia – di rimanere al potere ma trasformando de facto la Siria in uno stato vassallo. Il controllo del Levante è fondamentale per la Repubblica islamica, perché le consente di dominare il famoso corridoio sciita che collega l’Iran al Mediterraneo, passando per Iraq, Siria e Libano, dove è sempre più forte il potere degli Hezbollah, la milizia-partito che oggi, dopo la guerra civile siriana, si affaccia per un altro lato (Siria) ai confini di Israele, rendendo imminente un nuovo scontro con Gerusalemme dopo quello deflagrato nel 2006. Il Medio Oriente non è più lo stesso da quando George W. Bush ha invaso l’Iraq, permettendo paradossalmente all’Iran di diventarne il dominus, e creando le condizioni per lo scoppiare più a ovest di una guerra civile che ha visto sunniti e sciiti scontrarsi per procura. Ora però lo scontro potrebbe essere diretto. E vedere Israele schierarsi a fianco degli ex nemici arabi in funzione anti-Iran.

Scenari inconcepibili fino a qualche anno fa, di cui Formiche.net ha parlato con Ahmad Rafat (in foto). Giornalista di lungo corso, padre iraniano e madre italiana, attivista dei diritti umani, Rafat ha scritto sulle principali testate internazionali ed è noto al pubblico italiano, oltre che per le sue radici, per aver scritto libri dedicati all’Iran ed occupato la posizione di vice-direttore dell’agenzia Adnkronos International. Attualmente si trova a Londra, dove collabora per numerosi siti informativi in lingua persiana, per le quali scrive articoli e realizza contributi audiovisivi.

Ahmad Rafat, all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, l’esordiente Trump ha dichiarato, per l’ennesima volta, di essere insoddisfatto del JCPOA, l’accordo sul nucleare firmato nel luglio 2015 dall’Iran e dai paesi del P5+1, i membri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu più la Germania, cui va aggiunta l’Unione Europea nel ruolo di mediatore. Cosa ne pensano in Iran?

Certamente i conservatori sono contenti. Loro erano stati contrari agli accordi sul nucleare con i 5+1. Avevano accusato il governo di Rohani di aver ceduto su tutti i fronti, cosa che è in parte vera perché l’Iran, almeno sulla carta, è stata costretta a fare numerosi passi indietro. Bisogna tenere conto che il secondo governo Rohani ha bisogno di recuperare il sostegno della dirigenza della Repubblica islamica. È per questo che Rohani ha assunto toni più duri nei confronti dell’America. È così che va inquadrata anche la dimostrazione con il nuovo missile testato sabato scorso. I comportamenti e lo stesso linguaggio di Rohani si sono fatti più duri, come hanno mostrato le dichiarazioni a New York. Questo aumento della tensione aiuta inoltre il governo a deviare l’attenzione dalla grave situazione economica del Paese. Bisogna considerare che Rohani aveva deciso di stringere l’accordo sul nucleare allo scopo soprattutto di far cadere le sanzioni e migliorare così la situazione economica e attrarre investimenti stranieri. Ma Rohani non ha ottenuti i risultati sperati. E la crisi economica è esplosa. In questi mesi ci sono stati in Iran parecchi scioperi nelle industrie legate al governo. Ci sono operai che da sei mesi non ricevono gli stipendi. Le manifestazioni sono ormai quotidiane. Per distogliere l’attenzione da tutto questo bisogna alzare i toni e creare una nuova tensione internazionale in modo che il governo possa scaricare le responsabilità sugli attacchi contro l’Iran, inventandosi un nemico. Questo spiega la linea dura assunta da Rohani.

Donald Trump non l’ha detto esplicitamente, ma ha fatto capire che il 15 ottobre, quando sarà chiamato a certificare il rispetto da parte dell’Iran del JCPOA, potrebbe stracciare l’intesa. In tal caso, come reagirebbe la dirigenza iraniana?

Ci sono due linee. La prima sostiene che, se decadesse il JCPOA, l’Iran a quel punto potrebbe riprendere le attività del programma nucleare come prima dell’accordo. La seconda linea, rappresentata tra gli altri dal ministro degli esteri Zarif, sostiene che l’accordo ormai è stato fatto ed è stato siglato non solo dall’America ma soprattutto dalla comunità internazionale, dalla Germania, dalla Russia, dalla Cina e dagli altri. In questo senso, la posizione è che non ha alcuna rilevanza cosa pensino e facciano gli Stati Uniti. D’altro canto l’Iran non ha rapporti significativi a livello economico con gli Stati Uniti. Le ripercussioni sull’economia iraniana di una simile decisione americana sarebbero minime. A quanto mi risulta, inoltre, i paesi europei sono di tutt’altro parere. Federica Mogherini è stata molto dura su questo punto. La sua posizione è che non conta quel che dice l’America, ma quanto verifica sul terreno l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, che è l’unico ente chiamato dal JCPOA a verificare il rispetto da parte dell’Iran dei termini dell’intesa.

Su questo fronte c’è da registrare però la posizione di Macron, il quale, benché abbia sostenuto la bontà del JCPOA, ha fatto capire che sarebbe il caso di allargare i termini dell’intesa in modo che tenga conto delle principali preoccupazioni degli Stati Uniti, che vertono su tre punti: il programma missilistico di Teheran, la sua ingerenza in Iraq e Sira e la possibilità che, scaduto il JCPOA nel 2028, l’Iran rimetta in moto le centrifughe e torni ad arricchire l’uranio come prima della sigla dell’accordo. Pensa che l’Iran potrebbe mai prendere in considerazione una revisione del Jcpoe su queste linee?

Credo che Teheran, più delle posizioni di Macron, aspetti anzitutto la formazione del governo tedesco. Che non sarà sintonizzato con quello francese. Anche Theresa May, che ha manifestato la sua preoccupazione per il programma missilistico iraniano, sostiene che il JCPOA va preservato. La stessa Mogherini, per quanto conti, è su questa posizione. Difficilmente l’Europa sposerà nuovamente una linea dura contro l’Iran. Salvo che Teheran non rispetti i termini precisi del JCPOA. Negli accordi ci sono i temi che hanno sollevato gli Stati Uniti, ma in modo molto generale, e si prestano a varie interpretazioni. Le sue principali disposizioni, che riguardano il programma nucleare, sono però molto precise, e ritengo che sia difficile che, mentre l’Iran li rispetta totalmente, i paesi del 5+1 possano pensare di rivederle. Sicuramente non la Cina o la Russia. Che non sono due giocatori insignificanti, soprattutto la Cina, potenza economica che non mancherà di dire la sua.

Trump e i suoi collaboratori sostengono che l’Iran, anche se sta rispettando i termini del JCPOA, ne sta violando lo “spirito” con la sua condotta spregiudicata in Medio Oriente, in particolare con la trasformazione di Siria ed Iran in stati vassalli, e la creazione manu militari di un corridoio sciita che collega Teheran con il Mediterraneo, passando per Iraq, Siria e Libano. Sembra che venti di guerra stiano spirando in Medio Oriente. Quali intenzioni nutre l’Iran mentre affonda la sua presa nel Levante? E in particolare, vede la possibilità di uno scontro militare con i paesi arabi, alleati magari di Israele?

Non ritengo probabile un confronto diretto con Israele. Se avverrà sarà indiretto, tramite Hezbollah, soprattutto se questo continuerà a rafforzare la sua presenza in Siria. L’Iran alla Siria non può rinunciare. Perché rinunciando al corridoio perderebbe la sua carta principale nell’area che è Hezbollah. Fin quando sarà possibile, cercherà di conservare questo corridoio. Che in Iraq ad esempio ha permesso di mettere in moto le varie milizie sciite sostenute militarmente ed economicamente da Teheran che operano a ridosso del confine con la Siria. La strategia dell’Iran è sempre stata quella di sostenere delle milizie alleate. Basta pensare agli Houthi in Yemen. È uno strumento per accrescere il proprio potere. Se l’Iran non avesse la possibilità di manovrare questo strumento, perderebbe potere a vantaggio del suo rivale, l’Arabia Saudita.

Certo è che in Medio Oriente le percezioni contano spesso più dei fatti. E la percezione dei paesi arabi come l’Arabia Saudita , ma anche di Israele, è che l’Iran oggi si trovi in condizione di vantaggio. Non è chiaro se si tratti di una fake news o di realtà, ma pare che – come ha riferito Formiche.net il 12 settembre scorso – Mohammed bin Salman, il principe ereditario dell’Arabia Saudita nonché ministro della Difesa e regista di tutte le operazioni militari del Regno, si è recato clandestinamente in Israele e ha visto il premier Netanyahu per concertare una strategia comune contro l’Iran. Tutto ciò aggiunge un nuovo livello alla tradizionale rivalità sunnita-sciita. Secondo lei questa rivalità può ora sfociare in conflitto aperto?

Questo conflitto, più che tra sunniti e sciiti, è sempre stato un conflitto politico, tra politiche diverse che si nascondono dietro bandiere religiose diverse. È in questa luce che devono essere lette tutte le mosse dell’Iran, sia quando sostiene i talebani, sia quando, come è effettivamente avvenuto e potrebbe avvenire anche oggi, sostiene al-Qa’ida, cioè forze sunnite. Lo stesso fanno d’altro canto le potenze sunnite. L’Arabia Saudita finanzia i media delle varie forze di opposizione alla Repubblica islamica. Non è un conflitto religioso, come potrebbe apparire, ma politico. Il viaggio di Mohammed bin Salman è stato importante, l’ho seguito anche io. Ma non è una novità. Esponenti israeliani e sauditi si parlano da tempo. C’è stato in passato un primo incontro a Washington tra l’ex ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite e un generale saudita in pensione. Il potentissimo ex capo dei servizi segreti sauditi ed ex ambasciatore Turki bin Faisal si è seduto in Svizzera a fianco di ex esponenti del governo israeliane. Sono cose ormai normali. Adesso il presidente egiziano al Sisi ha detto che cinquanta paesi musulmani sono disposti a riconoscere Israele se si trova un accordo sulla questione palestinese: è tornata sul tavolo la proposta di intesa di vent’anni fa. Pertanto, che in funzione anti-iraniana ci sia un accordo tra sauditi e alleati arabi da un lato e Israele dall’altro non può sorprendere. In questo quadro vanno lette anche le recenti mosse di Hamas, con la promessa di rivedere il suo statuto e il recente accordo con la fazione rivale di Fatah per riunificarsi e formare un governo comune.

Hamas però, non molto tempo fa, aveva annunciato di aver nuovamente siglato un’intesa con la Repubblica islamica. Un accordo che dimostrava e dimostra come l’antisionismo possa essere la bandiera comune di sciiti e sunniti.

Una cosa è la politica della Repubblica islamica, un’altra quella di Hamas. L’Iran non rinuncerà mai alle dichiarazioni per la liberazione di al-Quds (Gerusalemme). Questo fa parte integrante della politica della Repubblica islamica. Ci vorrebbe un radicale cambio di passo ideologico da parte della dirigenza Teheran per vederla rinunciare a questi slogan. L’alleanza con Hamas ha avuto alti e bassi. È stata la guerra in Siria a farla venire meno cinque anni fa, perché Hamas è molto legato ai Fratelli Musulmani, e di conseguenza s’era allontanato dall’Iran. D’altro canto Hamas aveva perso gran parte dei finanziamenti promessi dai paesi arabi, e questo ha reso necessario un riavvicinamento all’Iran. Che però non ha mai considerato Hamas un suo alleato fedele alla pari degli sciiti iracheni, degli Hezbollah o degli Houthi dello Yemen. Non è un’alleanza strategica, è tattica e legata alle convenienze reciproche. In questo momento Hamas ha trovato più conveniente riavvicinarsi a Fatah, che non può vedere la Repubblica islamica. Basti pensare che Mahmoud Abbas nel suo penultimo viaggio in Europa si è incontrato ufficialmente con gli oppositori del regime iraniano, con tanto di foto e filmati. Hamas pertanto se vuole riavvicinarsi a Fatah deve rinunciare all’Iran. Le alleanze cambiano a seconda dei momenti.

Il prossimo anno saranno quarant’anni dal ritorno trionfale di Khomeini in Iran. Qual è lo stato di salute della Repubblica islamica in prossimità di questa importante ricorrenza?

Secondo me la Repubblica islamica è profondamente malata. Lo riconoscono anche molti esponenti del regime. Non sono pochi quelli che parlano della necessità di un cambiamento radicale, specie coloro i quali sono stati tenuti lontani dal circolo del potere. Tutti parlano di una Repubblica islamica malata per la quale non c’è una cura, ma che deve lasciare il posto a qualcos’altro. Su questo qualcos’altro le opinioni divergono molto, anche all’interno del sistema e non solo nelle fila di coloro che si oppongono alla Repubblica islamica. Ma parlare di salute della Repubblica islamica a distanza di quarant’anni non è corretto. Ha quarant’anni ma ne dimostra ottanta.


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