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Vi spiego cosa emerge davvero dai dati Istat sul lavoro

Giuliano Poletti

Pubblicato oggi da Istat il rapporto sul mercato italiano del lavoro nel secondo trimestre. Da esso si possono trarre alcune inferenze sull’impatto che la ripresa in corso sta esercitando sul lavoro. Alcune di esse vanno contro la percezione comune, altre confermano che sarà molto difficile attendersi recuperi importanti di produttività, in questa espansione, che conferma alcuni segni distintivi prettamente congiunturali.

Riguardo al numero di occupati, sono 78 mila in più nel trimestre, frutto del continuo calo degli indipendenti (-71 mila) e di aumento dei dipendenti (+149 mila), di cui ben otto su dieci sono a tempo determinato. Questo è il maggior punto politico del dato. La crescita di occupazione continua ad avvenire in misura schiacciante e crescente dal versante del tempo determinato. Sarebbe utile ed opportuno che chi magnifica il Jobs Act come generatore di occupazione a tempo indeterminato smettesse di dire sciocchezze.

Come ogni trimestre, Istat comunica gli importanti dati relativi alle transizioni negli ultimi dodici mesi. Leggiamo il comunicato:

«Nel complesso continuano a diminuire le transizioni da dipendente a termine a dipendente a tempo indeterminato (dal 24,3% al 16,5%). A fronte della riduzione complessiva delle transizioni dalla disoccupazione all’occupazione (-3,1 punti), i flussi dai disoccupati verso i dipendenti a tempo determinato aumentano (+0,9 punti). Riguardo agli inattivi, per le forze di lavoro potenziali è aumentata soprattutto la percentuale di quanti transitano verso la disoccupazione (dal 18,5% al 21,3% nei dodici mesi)»

Che tradotto significa che sono sempre meno gli occupati a tempo determinato che vengono assunti su base stabile (anche qui, rilevanza politica del dato), e che cala la quota di disoccupati che trovano un lavoro, anche se (come ci si aspetterebbe durante una ripresa), c’è un aumento del numero di inattivi che si iscrivono al collocamento o che dichiarano di essere in cerca di occupazione. Tra le categorie di inattivi, Istat rileva questo:

«L’incidenza degli scoraggiati sul totale degli inattivi di 15-64 anni scende al 12,3% (-0,3 punti in un anno). Sulla base dei dati di flusso aumentano le transizioni dallo scoraggiamento verso la disoccupazione (17,9%, +0,2 punti), soprattutto per i 15-34enni (30,8%, +5,0 punti) mentre diminuiscono le transizioni verso l’occupazione (dall’8,5% al 7,4% nei dodici mesi)»

Traduzione: come ci si attenderebbe durante una ripresa, aumenta il numero di coloro che passano dallo scoraggiamento alla ricerca di un lavoro, divenendo quindi disoccupati, e questo vale soprattutto per i più giovani. Ci sono tuttavia meno miracoli, nel senso che cala l’incidenza di quanti passano direttamente da scoraggiati ad occupati. Il grosso del calo degli inattivi deriva tuttavia ancora dalla riduzione del numero di pensionati (meno 146 mila negli ultimi 12 mesi), perché molte persone sono rimaste occupate in conseguenza della legge Fornero. In sintesi, il calo dell’inattività è frutto della ripresa, che spinge più scoraggiati a cercare lavoro, ma soprattutto del costante calo di pensionati.

Altro dato piuttosto interessante:

«L’input di lavoro utilizzato complessivamente dal sistema economico (misurato con le ore lavorate derivanti dalla Contabilità Nazionale) registra aumenti dello 0,5% su base congiunturale e dell’1,4% in termini tendenziali»

Se ci fate caso, quindi, il monte ore di contabilità nazionale cresce quasi perfettamente in linea con la crescita del Pil. Circostanza che spinge Istat a segnalare “l’elevata intensità occupazionale della ripresa in corso”. Questo significa due cose: la prima, che chi parla di “jobless recovery“, cioè di ripresa senza occupazione, sbaglia commento: la crescita del Pil traina un aumento di ore lavorate che è quasi in rapporto uno ad uno. La seconda considerazione, che discende dalla prima, è che questa crescita di occupati e di ore lavorate si tradurrà per l’ennesima volta in un andamento stagnante o cedente della produttività, che non depone benissimo per lo sviluppo di lungo termine degli standard di vita.

Sintesi estrema: la ripresa porta con sé una crescita dell’occupazione, con forte predominanza di quella a termine, cioè l’opposto dell’obiettivo strategico del Jobs Act; la ripresa genera molta occupazione, relativamente alla sua magnitudine, e di conseguenza possiamo aspettarci scarsi o nulli progressi dal lato della produttività. Il calo eclatante degli inattivi resta alimentato in misura significativa dagli effetti demografici legati alla riforma Fornero.

(Leggi l’articolo completo su www.phastidio.net)


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