Ottant’anni per un abitante della Terra di Mezzo non sono un grande traguardo. Il buon Bilbo Baggins per diventare un eroe, ha dovuto attendere di compierne 51. E poi ci sono gli elfi, praticamente immortali o gli Ent, creature vegetali dall’aspetto antropomorfo, in grado di vivere come gli olivi e le querce anche per migliaia di anni. Ma qui non siamo nella Contea o a Gondor: da queste parti si dà il giusto valore e il meritato tributo agli anni che passano. Non si poteva, quindi, non festeggiare questo ottantesimo anniversario con un ultimo viaggio nella Terra di Mezzo che permetta di capire il successo di una fiaba dalla quale è germinato un intero universo fantastico, oggetto di culto per migliaia di lettori e persino di incomprensioni dall’amaro retrogusto politico.
“In un buco nel terreno viveva uno Hobbit. Non era una cavità brutta, sporca, umida, piena di resti di vermi e di sporcizia, e neanche una caverna arida, spoglia, sabbiosa, con dentro niente per sedersi o da mangiare: era una casa hobbit, cioè comodissima. Aveva una porta perfettamente rotonda come un oblò, dipinta di verde, con un lucido pomello d’ottone proprio nel mezzo”. Ha inizio così la fiaba del professore e filologo John Ronald Reuel Tolkien. Un incipit semplice ma intrigante, in grado di entrare nella storia della letteratura mondiale. Non sarà poetico come il manzoniano: “Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno” o d’effetto come il dantesco “Nel mezzo del cammin di nostra vita” ma, negli anni, ha saputo conquistare la propria fetta di gloria, al pari dei personaggi che dalle sue pagine muovono i primi passi, destinati ad acquisire un ruolo a tutto tondo nella successiva trilogia epica de Il Signore degli Anelli e, addirittura, un posto nel cosmo ne Il Silmarillion.
Lo Hobbit è molto di più di una favoletta. Se ne rende conto Tolkien stesso, che la inventa come tale, da raccontare ai suoi figli prima di metterli a letto la sera, per poi rimanerne sedotto e quasi imprigionato. Leggendo il racconto, è possibile avvertirne l’evoluzione: a una fase iniziale che oggi definiremmo “disneyana”, in cui vengono presentati personaggi comici e incantati, tra poesie e canzonette, segue una di maturazione degli eventi che culmina infine in un abbozzo dell’epica e della tragedia che caratterizzerà il successivo Il Signore degli Anelli. Nei capitoli finali de Lo Hobbit le canzonette lasciano spazio a ballate medievali e alla comicità subentra il dramma. I protagonisti, una allegra comitiva di nani in tutto e per tutto simili a quelli di Biancaneve, subiscono la mutazione in eroi. Si sacrificano per il bene comune. Cadono sul campo di battaglia. Si creano personaggi più grandi del racconto stesso, e infatti di lì a breve troveranno casa nei tre volumi de Il Signore degli Anelli, scritti a cavallo della Seconda Guerra Mondiale. Ma l’estro di Tolkien ormai è in moto: l’autore, stregato da un incantesimo del buon Gandalf o dello scaltro Saruman, non si ferma ai romanzi epici. Sfrutta i suoi studi per inventare lingue, razze, storie, divinità e persino un universo parallelo compiuto e credibile. Ne Il Silmarillion, di cui proprio quest’anno ricorre il 40esimo anniversario (settembrino come Lo Hobbit), è raccolta una cosmogonia che sfida per complessità quella ellenica, strizza l’occhio a quella norrena e prende parecchio in prestito da quella cristiana.
Con simili basi, il mito ideato da Tolkien non poteva non entrare nel mito di giovani e non.
Sul ruolo delle opere di Tolkien all’interno della letteratura novecentesca si è già discettato a sufficienza. C’è chi lo ritiene un autore mediocre e retrogrado, le cui opere sarebbero imitazioni puerili di generi passati, chi, ritenendo il fantasy una sotto-categoria, lo ha derubricato tra gli esponenti minori del secolo scorso e chi invece lo ha glorificato e quasi santificato. Quel che qui preme sottolineare è altro, cioè l’importanza che i suoi testi hanno avuto nel substrato culturale novecentesco tanto da diventare vessilli attorno ai quali si sono raccolte forze di destra e di sinistra. Tolkien, che probabilmente quando scriveva aveva in mente tutt’altro, è stato tirato per la giacca tanto dai fascisti quanto dai comunisti. Sul finire degli Anni ’60 Il Signore degli Anelli era considerato un’opera hippie. Con ogni probabilità a causa del modo di intendere la vita proprio degli Hobbit, amanti della natura e dell’erba… pipa. Quegli stessi Hobbit che dieci anni dopo saranno presi ad esempio dal Fronte della Gioventù missina. Ad attrarre i giovani che gravitavano attorno alla destra italiana, probabilmente, il retrogusto esoterico dei romanzi, una lettura distorta degli ideali cavallereschi e di protezione del reame dal nemico invasore, il fatto che i buoni fossero uomini dalla pelle chiara e dall’aspetto ariano mentre i cattivi, gli orchi, fossero di pelle scura. C’era persino chi interpretava l’avidità del popolo dei nani e la loro tradizionale belligeranza come evidenti prove di antisemitismo dell’autore.
La contrapposizione ideologica Est – Ovest di quegli anni divide di colpo La Terra di Mezzo. Le fazioni politiche danno la caccia all’Unico anello come fanno, nell’opera, i servi di Sauron. Il presidente della Repubblica Francesco Cossiga, tolkeniano appassionato, dichiarerà a Lucio Del Corso e Paolo Pecere, autori del libro L’anello che non tiene: «il fascismo italiano è la negazione del tolkienismo, perché non può rifiutare le sue radici socialiste e positiviste e soreliane. C’ è più vicinanza tra fascismo e comunismo che non tra fascismo e tolkienismo».
Questione risolta? Tutt’altro: negli anni ’90 saranno i giovani leghisti del gruppo le Primule Verdi a travestirsi da Elfi mentre i grandi, sul quotidiano di riferimento, La Padania, spesso scandiranno una strofa della poesia che il povero Bilbo dedica ad Aragorn: “Radici profonde non gelano”. Negli Anni 2000, sarà la volta della stampa americana prendersela sproposito non con il libro ma con il film di Peter Jackson, accusando la pellicola Le due torri di portare un nome improprio a seguito dei fatti dell’11 settembre.
Passano gli anni, ma gli uomini continuano a dare la caccia all’Anello, nel tentativo di impossessarsene e domarlo. Come avrebbe detto Gandalf: «Non siate troppo ansiosi di elargire giudizi: nemmeno i più saggi conoscono tutti gli esiti».