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Perché i neo-nazisti tornano al Bundestag?

Alice Weidel, germania

I recentissimi risultati delle elezioni in Germania, pur largamente previsti, sconcertano l’opinione democratica europea e mondiale. L’ingresso in forze nel sistema parlamentare tedesco di un partito con robuste componenti neo-naziste preoccupa tutti, da Mosca a Washington. Rinfocola timori antichi, spesso sopiti da circostanze eccezionali come negli anni della guerra fredda. Però mai dimenticati, tanto da non essere stati estranei del tutto neppure nel Brexit deciso da Londra. La Germania è vista infatti da sempre come un competitor globale.

L’ombra di un’Unione Europea dominata dalla prima potenza economica del continente già infastidiva l’orgoglio inglese. La prospettiva di un ritorno marcatamente nazionalista a Berlino è stato poi un fattore niente affatto irrilevante nel prevalere delle torbide manovre interne dei conservatori britannici, che oggi esplicitamente vi vedono un’ulteriore giustificazione postuma. Del resto Margareth Thatcher alla riunificazione delle due Germanie fu fieramente contraria e Donald Trump (un deutschamerikaner, peraltro) rinnova la medesima avversione.

Ma davvero a quasi trent’anni da una Vereinigung che dopo la caduta del Muro pose fine alla Guerra Fredda, il revanscismo tedesco non solo ritrova nelle massime istituzioni del paese uno spazio che lo legittima, se non che mimetizzato nella questione immigrati sarebbe in grado di condizionarne la politica?

Vero che sebbene frequente nel confronto tra i partiti e negli ambienti culturali, approfondito nella ricerca storica e sulle pubblicazioni specializzate, il dibattito sul nazismo in Germania non ha mai assunto pienamente una dimensione nazionale, capace di coinvolgere la grande massa dei tedeschi, informandoli e sollecitando la loro riflessione non solo sulle radici e le ultime conseguenze del potere hitleriano, ma anche di quanto questo fosse espressione di ambizioni certamente preponderanti quanto meno nell’establishment se non nel popolo germanico.

Una mia esperienza diretta sebbene men che limitata, degli anni immediatamente seguenti la Riunificazione e dunque ormai molto lontana nel tempo, mi sembra nondimeno che mantenga un qualche significato. Rievoca sentimenti capaci di accompagnare utilmente le nuove preoccupazioni di oggi. È almeno l’impressione che ho ricevuto da un recente viaggio in Germania.

MEMORIA E OBLIO 

Berlino, ottobre 1993.

Le immagini luminescenti nel buio pieno della sala, un fotogramma dopo l’altro, rischiarano nel pubblico quel passato opaco e limaccioso che sedimenta incagliato in qualche avvallamento della sua memoria. Scarse nozioni ascoltate a scuola, qualche mezza parola raccolta in famiglia, rare letture, riflessioni approfondite probabilmente nessuna. Lo schermo mostra scene di meccanica brutalità. Gente coperta da indumenti mezzi stracciati, indifesa, si trascina sotto la neve.

Le canne dei mitragliatori delle SS pungolano fianchi e spalle dei prigionieri, già storditi dalla veloce e inesorabile violenza della deportazione. Uomini e donne separati a punta di pistola. Bambini strappati dalle braccia dei genitori. Chi resiste viene abbattuto con i calci dei fucili. Grida, sangue, lagrime: penosi da sopportare. Il disagio degli spettatori s’ avverte dagli scricchiolii delle poltrone, negli improvvisi e frequenti colpi di tosse. Nessuno pronuncia una sola parola.

Nelle strazianti sequenze di “Schindler’s List”, Liam Neeson, Ralph Fiennes, Ben Kingsley interpretano la vicenda realmente accaduta dell’imprenditore tedesco che nella Polonia occupata corrompe ufficiali della Wermacht prima per fare soldi, poi per salvare migliaia di ebrei. C’ erano anche questi commerci nelle pieghe dell’ordine di Himmler. Nell’aria gelida il fumo rappreso dei treni che trasportano le vittime attraverso mezza Europa si confonde con quello dei forni crematori nei tanti campi di sterminio.

Il realismo del film di Steven Spielberg agisce sulla platea come una seduta psicoanalitica, fa riemergere negli spettatori frammenti di ricordi e di sentimenti. Il passato storico rinviene come presente emotivo e non è facile da controllare. Impossibile dire se ci sia catarsi, la commozione è però visibile e potente. “Ho sentito il mio sguardo come trascinato via nel vortice delle figure che scorrevano sullo schermo”, dice all’ uscita una signora ancora giovane.

Con gli assistenti della troupe RAI, tutti giovani tedeschi, siamo venuti a sollecitare e raccogliere qualche commento alle persone che escono dai cinema di Berlino che proiettano il film. Sulla cattiva memoria di tanti tedeschi la polemica è sempre aperta. Siamo di fronte allo Zoo Palast, la sala che ospita il Festival al centro di Berlino, tra la stazione ferroviaria, il monumentale rudere della Gedaechtniskirche, la chiesa della Memoria, e il verde del Tiergarten, solo in minima parte occupato dallo zoo.

Il pubblico è di classe media-alta, così come l’età della maggioranza degli spettatori. È attento e silenzioso, indossa abiti di buona qualità. Considerato il gran battage pubblicitario che ha preceduto le proiezioni, si tratta di persone che per lo più conoscevano il tema del film prima di andare a vederlo ed è dunque presumibile qualche loro predisposizione a rivisitare il proprio passato nazionale, ad approfondirne la conoscenza critica.

Le risposte che riceviamo sono più o meno significative nell’immediatezza della registrazione televisiva: lette a distanza di anni molte perdono d’ intensità. Ce ne sono comunque alcune che hanno mantenuto l’originario spessore e le trascrivo. Aiutano a dare un’idea degli stati d’ animo suscitati dal film.

“Il film è ben fatto, ma non è materiale di giudizio, non si può giudicare una nazione intera da un film”, ci risponde un uomo sui settant’anni, cappotto e cappello, che da per scontata un’intenzione maliziosa nella nostra domanda e si allontana senza aggiungere altro.

Una giovane coppia sui trent’anni, piange all’ unisono, accetta nondimeno di rispondere. Sono molto gentili.

“Vedere certe cose è diverso dal leggerle sui libri… Abbiamo i brividi addosso”, dice lui.

Lei aggiunge: “A lui costa crederci, ma diteglielo, ditegli che è tutto vero, che le cose sono andate proprio così…”

Lui: “Certo che ci credo, ma ho bisogno di saperne di più, voglio capire…”

“Cosa vuol sapere?” Domandiamo noi.

“Ma non so, quanti sono davvero gli ebrei scomparsi… tutti in Germania sapevano?”, fa incerto il ragazzo.

Interviene una donna che s’ avvicina quasi con un balzo alla luce della telecamera, slacciando il braccio dall’uomo che le camminava accanto e mette in mano al ragazzo un biglietto da visita. Evidentemente lo stava ascoltando.

Il giovane legge a voce alta: “Associazione tedesca per la Memoria nella R.F.T, Tauenzien Strasse… Ma cos’è questo…”

“Vienici a trovare che ne parliamo, se davvero vuoi sapere…”, risponde la donna.

E a noi: “Questo ragazzo non sa, ma tanti altri solo fingono di non sapere”. E se ne va.

Per la verità neanche i miei aiutanti, Frieder, Rudiger e Dietmar, anch’essi trentenni, sebbene ragazzi colti, che hanno girato mezzo mondo, il primo quasi medico, un altro architetto, ne sanno molto. Per dirla tutta, ne sanno poco e ancor meno hanno voglia di parlarne. Ma vale la pena tentare di comprendere il loro stato d’ animo, poiché si tratta di persone non solo di profondo e sincero sentimento democratico, ma anche pienamente aperti alla vita, sensibili, generosi e solidali.

Se fossero miei figli ne sarei orgoglioso. Ne parliamo tra noi. E mi sembra di cogliere come una cesura tra loro e quel passato: un quel che è stato è stato, ora siamo un paese diverso e non accadrà più. Mi vogliono bene e mi rispettano, quindi mi ascoltano. E poi, dobbiamo fare tempo prima di andare all’ uscita di un altro cinema per nuove interviste. Ci prendiamo una pausa con biscotti e caffè.

Detestano dal profondo del cuore gli skinheads, antisemiti nazisteggianti, cresciuti più all’est (nella DDR) che all’ovest, nell’odio per gli immigranti. Sono inorriditi quando qualche mese addietro siamo andati a Rostock, sul Baltico, a filmare i palazzi di immigrati vietnamiti e rom in fiamme e in ospedale abbiamo visto le decine di ustionati, salvi per miracolo grazie all’ intervento spericolato dei vigili del fuoco. Il giorno seguente avrebbero volentieri marciato con i ventimila cittadini scesi in strada per protesta, se non avessero dovuto lavorare con me. Ammutoliti, loro che se la spassano tra scherzi e risolini.

Comunque l’indomani hanno sottoscritto la lettera-manifesto di ripudio al sindaco Klaus Klisman, rimasto invece tranquillamente in vacanza. E tuttavia c’è una molla che manca, non gli scatta l’indignazione, non s’ inquietano più di tanto nell’ascoltare la donna d’un edificio adiacente a quello bruciato che si rammarica dell’ accaduto, certo, nondimeno le scappa detto: “È terribile, è terribile, però sono diversi da noi, vivono come gli pare…”. E richiesta di un esempio, aggiunge senza la minima consapevolezza dell’enormità delle sue parole: ”Ce ne fosse stato uno che metteva le tendine alle finestre…”

La maggior parte dei giovani non mostrano interesse alla politica, sebbene siano assai meno sordi all’impegno civile. Dei testi storico-politici letti per dovere scolastico quasi non ricordano niente. Karl Jaspers? Certo che lo conoscono. Tuttavia del suo famoso intervento all’ inaugurazione dell’anno accademico 1946 all’ università di Heidelberg  – se davvero l’ hanno letto – ai miei assistenti non torna in mente neanche una parola.

Gli ricordo che secondo il filosofo e psichiatra: i tedeschi hanno una colpa metafisica; perché dopo i milioni di morti nei campi di sterminio, sono ancora vivi…

“Nel ’46 era giusto dirlo, ma adesso è passato quasi mezzo secolo… noi non sapevamo neppure che saremmo nati”, osservano.

“Jaspers aggiunse che dimenticare è una colpa. Che l’accaduto collettivo deve essere ricordato, perché soltanto se ne conosciamo bene le cause possiamo evitare che si ripeta”, replico io.

Andiamo a recuperare l’automobile per dirigerci al cinema Arsenal, a Postdamer Platz, Berlino est, abbastanza distante da dove ci troviamo. Lungo il Landwehr Kanal vediamo un mazzo di rose rosse ormai appassito che resiste infilato nella balaustra. Sul muro di fronte, una lapide ricorda che in questo punto, il 15 gennaio 1919, la comunista Rosa Luxemburg, dirigente dell’insurrezione spartachista, fu colpita a morte dagli ufficiali della Guardia a cavallo e il suo corpo ancora palpitante gettato in acqua.

“Stasera attraversiamo la storia a piedi…”, dice un po’ compreso e un po’ ironico Dietmar.

Berlino è davvero un crocevia della storia europea e dunque uno spartiacque eccezionale tra passato e presente, memoria e oblio. Avvicinandoci alla Porta di Brandeburgo, qualcuna delle tante bancarelle che tutt’attorno svendono i resti dell’Armata Rossa, attende gli ultimi clienti alla luce di potenti lampade elettriche. Colbacchi di pelliccia, tende mimetiche da campagna, cannocchiali Zeiss fabbricati nella Jena ancora occupata dai sovietici, stivali di cuoio, cinture, stemmi, distintivi, medaglie d’ ogni foggia. Tutto quanto i magazzini militari delle divisioni sovietiche stanziate dal 1945 nella Repubblica Democratica Tedesca e ormai partite per sempre, hanno potuto liquidare per raggranellare qualche milione di marchi. È un’accozzaglia coloritissima e deprimente al tempo stesso. Simbolicamente racchiude l’esito catastrofico anni di guerra e centinaia di milioni di vite umane.

La RDT non esiste più da tempo, il democristiano Helmut Khol l’ha riscattata a suon di milioni dall’Unione Sovietica di Michail Gorbaciov, che a sua volta ha rinunciato a mantenere in vita l’ Unione imperiale costruita da Stalin alla fine della seconda Guerra Mondiale, nel tentativo disperato e inutile di salvare il salvabile. Troppo tardi: è tutto perduto. Niente più violinisti e saltimbanchi russi, soldati in libera uscita alla ricerca di qualche spicciolo, sui marciapiedi di Kreuzberg, il quartiere scapigliato, sempre in vena di baldoria. Spariti anche i suonatori di pianola. Check-point Charlie, per quarant’anni il principale posto di blocco tra le due Berlino, scambi di spie e fughe romanzesche, è ormai un set fotografico per turisti in cerca di souvenirs low-cost. La città riunita non cessa di essere doppia, tuttavia nelle kneipe di entrambe le parti giovani tedeschi e del mondo bevono e cantano.

A Postdamer Platz, il cinema Arsenal è scarsamente illuminato, come tutto l’immenso spazio circostante. Il pubblico in uscita dal film di Spielberg mostra sorpresa e perfino qualche fastidio per la nostra telecamera. Spieghiamo l’intenzione che ci ha portato fin lì. Pochi si lasciano trattenere dalle nostre parole, sebbene in questa zona di classe media ex RDT convivano artisti, scrittori, operai e impiegati pubblici, una popolazione in teoria ben disposta e anche abituata al dibattito. Ma probabilmente anche stanca di certi rituali. E’ un docente di liceo a mettere su e vivacizzare con noi per quanto possibile una qualche discussione. Per il mestiere che mette in mostra, sospettiamo che possa essere un ex agit-prop della Sed, il partito unico di Eric Honecker (oggi depurato ne Die Linke, La Sinistra, che alle urne ha sfiorato il 10 per cento). Di certo è preparato e ha pratica delle polemiche di strada. Risponde per le rime a un paio di scettici che svalutano la testimonianza del film.

“Non vi ricordate niente! –si rivolge con foga ai due o tre che ancora lo ascoltano, tra i quali una donna avanti con gli anni: Von Keitel era stato il capo della Wermacht, a Norimberga fingeva di essersi pentito: mentiva! Gli bruciava la firma della resa a capo chino davanti a Zukhov. Con milioni di morti sulla coscienza, solo per paura il Feldmaresciallo ammetteva che la Germania avrebbe dovuto rinunciare alla dottrina nazional-socialista per salvare il Reich e la patria dalla distruzione e dalla vergogna. Ben sapevano di essere razzisti, sanguinari e demagoghi: questa era la loro dottrina! Ma i giudici non si sono fatti ingannare e l’hanno impiccato”. I presenti annuiscono in silenzio, chissà quanto davvero convinti. Il cinema spegne le ultime luci. Ci allontaniamo tutti con rapidi cenni di saluto dall’ombra densa che avvolge la piazza.

Nessuno, in nessuna piazza del mondo, quella notte avrebbe immaginato che un quarto di secolo più tardi sarebbe apparso non un mercante d’armi o un qualche agitatore bavarese, bensì un presidente degli Stati Uniti a spronare la Germania a dotarsi di un proprio esercito moderno. Con la rozza intemperanza che gli è propria, Donald Trump ha portato allo scoperto una sfida che i suoi predecessori, democratici o repubblicani che fossero, hanno sempre gestito con cautela. Frenare la crescita dell’economia tedesca gravandola dei costi militari necessari a un maggiore protagonismo geopolitico, che però potrebbe sfociare nella nascita di un quarto Reich.

ildiavolononmuoremai.it

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