I Vangeli riferiscono del miracolo di Gesù che moltiplicò i pani ed i pesci per sfamare la folla che si era riunita ad ascoltare la sua parola. I dodici apostoli, preoccupati perché si era fatto tardi e non c’era modo di dar da mangiare a tutte quelle persone, sollecitarono Gesù a congedarle. Gesù li invitò, invece, a distribuire il cibo che essi avevano. Erano solo cinque pani e due pesci, ma furono sufficienti a sfamare cinquemila uomini e ne avanzò ancora.
Che c’entra – penserà il lettore – questo episodio evangelico con le pensioni? Se il lettore avrà pazienza, capirà tra breve.
Pochi lo sanno (gli organi di informazione hanno trascurato la notizia) ma in Parlamento attende di essere approvata una proposta di legge costituzionale, diretta a modificare l’articolo 38 della Costituzione. Si tratta della proposta di legge n. C3478, avente come primo firmatario l’onorevole Mazziotti di Celso, ora all’esame della commissione affari costituzionali della Camera.
La modifica costituzionale consiste nel prevedere che gli obblighi per gli organi e gli istituti preposti alla previdenza e all’assistenza (in pratica, l’Inps) devono essere adempiuti “secondo principi di equità, ragionevolezza e non discriminazione tra generazioni”.
Quali ragioni muovono i presentatori di tale proposta di legge a voler modificare la Costituzione?
E’ presto detto e lo si evince dalla relazione di accompagnamento, dove si sostiene che “ancora oggi molti pensionati ricevono pensioni generose nonostante un basso livello di contributi versati” e che “la sostenibilità del sistema pensionistico è messa a dura prova dall’invecchiamento della popolazione. Se si va avanti così, le generazioni future avranno pensioni enormemente più basse di quelle di chi in pensione ci è già andato, se le avranno” ed ancora che “non si può considerare equo un Paese nel quale il sistema pensionistico discrimina fra pensionati di generazioni diverse.”
A un lettore distratto sembrerà che l’introduzione di questi principi generali, solenni ma innocui, sia priva di effetti pratici ed abbia una valenza soltanto programmatica. Questo è anche l’autorevole pensiero del primo firmatario della proposta, l’on. Mazziotti, espresso nella replica a questo giornale (il 28 luglio) al commento allarmato di Biasioli e Orsini (del 26 luglio).
A un lettore non disattento, invece, appariranno evidenti la portata e le implicazioni concrete di queste poche parole introdotte nella Costituzione: equità, ragionevolezza e non discriminazione tra generazioni, alle quali si dovrà ispirare l’azione dell’Inps.
Perché – uno si chiede – la discriminazione tra generazioni non è un evento piovuto dal cielo, ma è stata introdotta dallo stesso legislatore, prima con la riforma Dini e poi, più severamente, con la riforma Fornero.
Insomma – uno si chiede – per realizzare la non discriminazione tra le generazioni, non sarebbe sufficiente una legge ordinaria che, modificando l’attuale sistema previdenziale, ne correggesse gli elementi discriminanti in modo che le giovani generazioni, quando usciranno dal mondo del lavoro, possano godere di una pensione dignitosa?
E ci si chiede ancora: forse che modificando la Costituzione, inserendo questi principi di diritto previdenziale, si avvierà un percorso di correzione del sistema Dini-Fornero più favorevole per i giovani, ma non penalizzante per i vecchi?
Se così fosse, la sostenibilità finanziaria del sistema previdenziale ne soffrirebbe e, di questi tempi, con l’Europa che ci controlla i conti della spesa pubblica, non è una scelta politica plausibile. Dunque, nonostante le rassicurazioni di Mazziotti, secondo cui non c’è alcuna intenzione di toccare le pensioni in essere, non possiamo credere che questa sia la conseguenza della modifica costituzionale.
In realtà, lo scopo dell’introduzione, nella Costituzione, dei principi di equità e di non discriminazione tra le generazioni è l’auto-correzione del sistema previdenziale. Il rimodellamento si realizzerà a bilancio Inps invariato e senza il sussidio della fiscalità generale, solo col diverso impiego e con la redistribuzione dei contributi versati ed acquisiti al bilancio Inps.
Detto brutalmente: equità, ragionevolezza e non discriminazione tra le generazioni vuol dire che i “pensionati ricchi” dovranno sacrificare una parte della loro pensione a favore dei “pensionati poveri”. Al miracolo di Gesù della moltiplicazione dei pani e dei pesci, se abbiamo fede, crediamo, ma ai miracoli della politica no, non siamo così ingenui da crederci.
Allora, ecco la trovata: con la modifica dell’art. 38 della Costituzione si potrà ridurre la pensione ad alcuni per elargirla ad altri, e questo si potrà fare perché i “diritti quesiti” non saranno più garantiti dalla Costituzione!
Il novellato articolo 38 non sarebbe, peraltro, esente da incoerenza intrinseca alla Costituzione stessa, ponendosi in contraddizione con altri principi costituzionali, come quello che il trattamento di quiescenza è configurabile quale retribuzione differita, secondo il criterio di proporzionalità alla quantità e qualità del lavoro prestato, come ci ha insegnato la Corte costituzionale (sentenze n. 208 del 2014 e n. 316 del 2010).
Altro punto critico: l’introduzione di un doppio prelievo, l’uno tributario condiviso con tutti gli altri cittadini ed un secondo, dedicato esclusivamente ai pensionati, interno al circuito previdenziale, finirebbe per porsi in contraddizione con gli articoli 3 e 53 della stessa Costituzione.
A nulla rileva, infatti, che il prelievo sia destinato al bilancio Inps anziché a quello dello Stato. Invero, la natura tributaria di una prestazione imposta non deriva dal fatto che il destinatario sia lo Stato, ben potendo essere anche un altro ente, come un Comune, o un Consorzio di bonifica, tanto per citare qualche caso, a tutti noto, di soggetti attivi d’imposta diversi dallo Stato.
Indeterminata, stante il carattere di principio della proposta di legge costituzionale, è la soglia sulla quale l’Inps inciderà (qual è il pensionato “ricco” e qual è quello “povero”?). La risposta al quesito sarà demandata alla legge ordinaria. Si può comunque ipotizzare che, se si vorrà conferire effettività al nuovo sistema “solidaristico intergenerazionale”, la scure non potrà abbattersi soltanto su pensioni di importo molto elevato poiché, essendo poco numerose, darebbero un ricavo modesto.
Si può trarre qualche elemento previsionale dal dibattito che, da tempo, si sta svolgendo sul tema del ricalcolo, contributivo o forfettario, delle generose pensioni in essere. Al riguardo, una significativa indicazione proviene dal commissario alla spending review Yoram Gutgeld, già consigliere economico del governo Renzi che, in un’intervista apparsa sul Corriere della Sera del 17 giugno 2017, indica 2000 euro mensili lordi (pari a circa 1500 euro mensili netti) come soglia per conferire effettività alla misura. In tal caso, i pensionati candidati ai tagli, ahimè, sarebbero ben 2,5 milioni.
Circolano poi, negli organi di informazione, ulteriori ipotesi, come quella di fissare un tetto massimo di 2500, oppure 3000, oppure 5000 euro lordi alle pensioni più elevate in essere, ridistribuendo sulle altre il di più (ma come?). Tutto questo, naturalmente, senza considerare che quelle pensioni non sono un regalo dell’Inps ma rappresentano la restituzione assicurativa di (proporzionalmente elevati) contributi versati durante gli anni di lavoro. Cioè si tratterebbe di un esproprio.
Questo, dunque, è lo stato dell’arte sul quale matura la proposta di modifica costituzionale: non c’è da stare allegri! Ma perché, invece di almanaccare modifiche ai principi costituzionali di diritto previdenziale e sociale, con l’intento dissimulato di livellare le pensioni, non si pensa a separare l’assistenza dalla previdenza, come molti studiosi sostengono da tempo? La separazione garantirebbe finalmente trasparenza e chiarezza nel bilancio Inps, evitando la confusione tra i due diversi sistemi. Infatti, la commistione tra assistenza e previdenza perdura anche dopo l’introduzione nell’Inps, con l’art. 37 della legge n. 88 del 1989, della gestione autonoma dei trattamenti assistenziali (Gias).
Cosicché i contributi che vengono versati per garantire in futuro i trattamenti pensionistici finiscono in un unico bilancio, all’interno del quale l’Inps si destreggia per poter erogare anche le prestazioni assistenziali. Da ciò deriva, inevitabilmente, l’assorbimento di risorse contributive nelle erogazioni assistenziali e sociali.
Vi è un’ulteriore e non marginale ragione che dovrebbe spingere a realizzare la separazione, ed è questa: la spesa effettiva per pensioni, al netto delle tasse e delle ingenti somme della gestione assistenziale Gias, scenderebbe ad una percentuale del pil in linea con quella degli altri Paesi comunitari e sarebbe interamente coperta dalle entrate contributive (con le riforme previdenziali via via attuate, fino alla riforma Fornero, il sistema previdenziale italiano è divenuto perfettamente sostenibile).
Invece, nel confronto con gli altri Paesi europei l’Italia si posiziona, a causa dell’anzidetta commistione, agli ultimi posti delle classifiche in tema di spesa pensionistica, con tutte le relative conseguenze negative in termini, non solo di immagine, ma anche di “attenzione” comunitaria alle dinamiche potenzialmente fuori controllo della spesa pubblica. Appare quindi opportuno che si proceda ad una riforma radicale della gestione assistenziale svolta dall’Inps, separandola da quella previdenziale, auspicabilmente mediante l’istituzione di un nuovo e diverso organismo che se ne occupi.
Per ottenere ciò, sembra infatti necessario che la funzione assistenziale sia sottratta all’Inps, il quale deve esclusivamente svolgere la funzione previdenziale assicurativa che per legge gli appartiene, e che le erogazioni assistenziali siano invece affidate ad un ente diverso, convenientemente attrezzato ad occuparsene in maniera equa ed efficace. Per far questo non occorre ricorrere a complesse modifiche costituzionali: basta una legge ordinaria.