Al momento in cui viene redatta questa nota, l’aggiornamento del Documento di Economia e Finanza (Def) non è stato esaminato dal Consiglio dei ministri. Quindi, non è stato pubblicato e il vostro chroniqueur, ovviamente non ha il testo. Prassi e garbo, invece, richiedono che il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco (in foto), ne abbia un’anteprima. Ciò spiega il suo richiamo, cortese ma fermo, sul debito pubblico. Il ministro dell’Economia e delle Finanze ha risposto ricordando che negli ultimi 12 mesi il fardello del debito è diminuito (di un valore impercettibile) e che ormai è sostenibile. Le preoccupazioni del Governatore, quindi, sarebbero eccessive?
Chi ha ragione? Un lavoro con interessanti novità negli Economics Research Papers di Bath (N. 61/17) può essere utile a dirimere la questione. Ne sono autori due economisti spagnoli Marta Gomez-Puig e Simon Sosvilla Rivero, che sovente lavorano come consulenti della Bce e sono comunque distinti e distanti sia da Via Nazionale sia da Via Venti Settembre. Si intitola “Heterogeneity in the Debt-Growth Nexus. Evidence from EMU Countries” (Eterogeneità nel nesso tra debito pubblica e crescita. Prova dai paesi dell’Eurozona). E ci riguarda da molto vicino. Sulla base di dati e analisi più recenti, i due economisti mettono in discussione circa venti anni di scritti secondo cui, sulla base del lavoro pioneristico di Carmen M. Reinhart e Kenneth S. Rogoff, il debito pubblico frena la crescita se supera il 90% del Pil (quello dell’Italia supera il 130%, nonostante la leggerissima flessione dell’ultimo anno).
Sulla base di un’analisi relativa ai Paesi dell’unione monetaria europea dal 1961 al 2015, Marta Gomez-Puig e Simon Sosvilla Rivero pongono l’asticella molto più in basso utilizzando tecniche di analisi più raffinate di quelle di Carmen M. Reinhart e Kenneth S. Rogoff. Secondo i loro calcoli, in tutti i Paesi dell’unione monetaria, il debito pubblico comincia ad avere effetti negativi sulla crescita dell’economia reale quando raggiunge il 40% del Pil nei Paesi dell’Europa centrale e il 50% in quelli dell’Europa meridionale. Implicitamente, quindi, l’obiettivo, nel trattato di Maastricht, che il debito non superi il 60% del Pil, dovrebbe essere rivisto al ribasso. Secondo i due economisti spagnoli, le politiche di austerità devono continuare a essere applicate nell’unione monetaria, ma dato che non sembra abbiano inciso sul debito, urge che siano accompagnate da politiche strutturali (liberalizzazioni, denazionalizzazioni, riduzione del perimetro del settore pubblico, ecc.) tali da aumentare le produttività e i rispettivi Pil potenziali. Tuttavia, l’asticella varia da Paese a Paese, una media generalizzata sarebbe poco utile. L’analisi conclude che l’aggiustamento dovrebbe essere più lento in Grecia e Spagna e più veloce in Italia.
A queste analisi si aggiunge un lavoro di Irem Demirci (Università di Mannheim), Jennifer Huagn (Cheung Kong Graduate School of Business) e Clemens Sialm (University of Texas, Austin) che rappresenta un altro avvertimento “Goverment Debt and Corporate Leverage. International Evidence” (Debito pubblico e capacità di indebitamento aziendale. Dimostrazione internazionale), Nber Working Paper No. w23310. L’analisi riguarda 40 Paesi ad alto reddito e copre il periodo 1990-2013 e documenta una relazione negativa: quanto più elevato il debito pubblico, tanto maggiore è l’effetto di spiazzamento sugli investimenti aziendali. Lo studio esamina in particolare l’evoluzione del mercato. Che, finito il Q.E. e con un aumento dei tassi dovuto alla politica americana ed alla situazione internazionale (Corea del Nord, Iran) potrebbe diventare molto volatile con attacchi mirati ai Paesi più a rischio, e soprattutto a quelli che sembra non abbiano mantenuto le promesse (come quella di ridurre da 8000 a mille le aziende del ‘capitalismo municipale’.
Sul fondale, poi, ci sono le prospettive di crescita economica. I più recenti dati Istat e del CSC (Centro Studi Confindustria) suggeriscono che è in corso una ‘ripresina’; restiamo pur sempre il fanalino di coda dell’Unione monetaria ma ci sono buone probabilità che nell’anno in corso l’aumento del Pil non sia solo qualche decimale ma l’1,5%. Dall’interno dei ministeri competenti giungono ‘spifferi’ secondo cui nei prossimi due anni si potrebbe arrivare all’1,7%. Al di là di questi numeri si pone una questione di fondo: la ripresina è l’inizio di una tendenza di fondo che ci riporterebbe ad un tasso di crescita del 2 2,5% degli anni Ottanta od un fenomeno di breve durata (un tempo lo si sarebbe chiamato ‘congiunturale’) a rimorchio dell’eurozona (che sta crescendo al 2%) e soprattutto della Germania (2,5%)? I 20 istituti del consensus (centri di analisi econometrica e previsionale internazionali privati e di grande prestigio), non vedono il rafforzarsi della ripresa in Italia, ma un rallentamento più o meno marcato, anche nell’ipotesi di un buon traino del resto d’Europa. Per l’Italia, la stima media dei 20 istituti è che nel 2018 il pil crescerebbe dell’1%. Il rallentamento potrebbe avere implicazioni immediate sul debito.