Il silenzio mediatico non è bastato. Le elezioni tedesche si dovevano tenere in una atmosfera soffusa, di disarmo bilaterale, privo di tensioni: tutto doveva andare avanti senza cambiamenti di sorta, lasciando che l’attenzione venisse catturata dalle tenzoni guerresche tra Trump e Kim Jong-un, dagli intrighi del Russiagate sempre meno verosimili, dalle immagini delle ginocchia a terra dei giocatori americani che protestano contro i metodi violenti usati dalla polizia nei confronti del “black people”.
Il dissenso tedesco, il malessere popolare, è emerso comunque. La vittoria, l’ennesima, di Angela Merkel alla guida della coalizione cristiano, democratica e sociale è stata segnata da una contrazione vistosa dei consensi, con il peggior risultato dal 1949. Gli alleati della Spd, guidati da Martin Schulz, sono stati anch’essi puniti dall’elettorato, anche se molto meno di quanto non sia accaduto al partito di Merkel. Per loro, basta alleanze: il partito va rifondato. L’opposizione, a destra, ha guadagnato forti consensi, con l’FPD che nel 2013 era rimasta senza eletti al Bundestag ed AfD che non ne aveva mai avuti. Stavolta, hanno superato entrambi il 10%: ha vinto chi era fuori del circuito della rappresentanza ufficiale. La sinistra della Linke ed i Verdi, da anni all’opposizione, non hanno invece lucrato dallo smottamento della coalizione di governo.
Il sistema politico tedesco, basato sul consenso e sulla stabilità mostra una vistosa incrinatura sociale, visibilmente polarizzata. Da una parte c’è la protesta nei Lander orientali in cui il salario minimo è più basso rispetto al resto della Germania, quella dei sotto occupati dei mini-job tenuti a galla dalle provvidenze sociali dell’Hartz IV e di coloro che soffrono per la concorrenza degli immigrati entrati a centinaia di migliaia. Senza trascurare il malessere dei pensionati poveri. Dall’altra, tra i liberali, c’è l’insofferenza verso le politiche sociali generose all’interno e il sostegno monetario ai Paesi mediterranei, indebitati ed inefficienti.
Queste due proteste, simmetriche, sono le due facce della medesima medaglia. La Germania riproduce così, al suo interno, le stesse contraddizioni che caratterizzano da anni l’Europa intera. C’è chi lavora in settori ad alta produttività e si sente defraudato del giusto salario per l’assistenzialismo erogato a coloro che lavorano nei settori ancillari a basso valore aggiunto; c’è chi ha risparmiato per una vita e si vede tosare il patrimonio accumulato per via dei tassi negativi, decisi a favore di chi nel resto dell’Europa si è indebitato senza criterio, né misura; c’è chi si trova a competere con gli immigrati, per un lavoro remunerato in modo sempre più misero.
Chiedersi, ora, che cosa ne sarà delle politiche europee pare davvero bizzarro. Non ha molto senso domandarsi se dovrà spettare all’Esm il controllo dei disavanzi eccessivi in luogo della Commissione europea, ed erogare aiuti ai Paesi in pericolo di default; se è necessario proseguire sulla strada della Banking Union al fine di garantire i depositi dei risparmiatori; decidere quanto plafonare gli impieghi bancari in titoli di Stato per evitare il propagarsi degli shock; stabilire regole più precise per agevolare il ripudio parziale dei debiti pubblici divenuti insostenibili. E tutto ciò, mentre si celebrano le eccedenze commerciali strutturali, che vengono considerate encomiabili perché rappresentano l’eccellenza produttiva e la capacità di competere con successo sui mercati; mentre in Germania si accumulano contemporaneamente crediti e debiti verso l’estero, dovuti per un verso all’attivo commerciale e per l’altro al deflusso di capitali in fuga dai Paesi in difficoltà, alla ricerca di un porto sicuro.
Le contraddizioni che in questi anni hanno caratterizzato i rapporti interni all’Unione europea non si sono fermate alle frontiere della Germania. Le soluzioni istituzionali e normative adottate in questi anni, dal Fiscal Compact all’Esm, le politiche monetarie accomodanti decise dalla Bce, le prospettive di una sovranità europea condivisa al fine di ridurre le divaricazioni economiche nazionali sono sovrastrutture incapaci di porre rimedio alle tensioni sottostanti. Che sono economiche, sociali e, in definitiva, politiche.
Quando gli Stati si arrendono all’economicismo, e fanno addirittura dello squilibrio commerciale strutturale a loro favore l’unico ingrediente rispetto a cui si commisura il successo della loro comunità, difficilmente possono poi rimediare con le politiche sociali, la redistribuzione fiscale, l’accomodamento monetario: negano il presupposto di cui si sono vantati con orgoglio.
Anche la Germania, che in questi anni ha testimoniato nei fatti di avere il sistema produttivo più efficiente e competitivo, si trova di fronte alla realtà, conflittuale e divaricata, in cui i vincitori non si sentono sufficientemente ricompensati ed i perdenti si lamentano per essere ancora esclusi. Il prossimo esecutivo tedesco indurirà probabilmente le politiche di risanamento e di rigore nei Paesi meno efficienti e competitivi, per accontentare le pulsioni interne di coloro che rivendicano il rispetto delle regole che presiedono al merito. Ma aggraverà inevitabilmente le tensioni, anche quelle interne.