Quattro presidenti del Consiglio e 5 segretari in dieci anni. Questi i numeri del Pd che ieri ha celebrato il suo compleanno nella completa assenza dei suoi padri putativi. All’appello mancava Romano Prodi che ha spostato di parecchi chilometri la “sua tenda” e sta per accasarsi in una formazione europeista che comprenderà Emma Bonino e il ministro Carlo Calenda.
Mancava Francesco Rutelli che, dieci anni fa, insieme a Piero Fassino, era stato il co-fondatore del Pd, salvo poi abbandonarlo dopo la vittoria di Pierluigi Bersani alle primarie del 2009. Mancava Massimo D’Alema che, a dir la verità, ha sempre mal sopportato la fusione tra Ds e Margherita tanto da definirla “un’amalgama mal riuscita”, mentre il suo avversario di sempre, Walter Veltroni, era l’invitato d’onore.
Esattamente dieci anni fa l’ex sindaco di Roma veniva eletto primo segretario del Pd col metodo delle primarie, surclassando tutti gli sfidanti: Enrico Letta, Mario Adinolfi, Rosy Bindi e Pier Giorgio Gawronski. Il primo ha lasciato la politica, non ha più la tessera del Pd, vive perlopiù a Parigi e da poco è stato scelto dal presidente francese Emmanuel Macron per far parte della Commissione pubblica per la riforma dello Stato. Il secondo si è spostato su posizioni vicine ai tradizionalisti cattolici, ha animato l’ultimo Family Day e ha fondato il Pdf, il Popolo della Famiglia. La Bindi, oggi presidente della commissione antimafia, ha, invece, disertato la festa al teatro Eliseo come quasi tutti gli altri esponenti dell’attuale minoranza del partito. A parte Veltroni e Franceschini mancavano tutti gli altri ex segretari: Guglielmo Epifani e Bersani militano in Articolo 1-Mdp (Movimento democratico progressista), mentre Matteo Orfini, ora presidente del partito, si è limitato a scrivere un semplice post su Facebook.
In questi dieci anni, al di là dell’album di famiglia, è cambiata soprattutto la linea politica. Si è passati dalla ‘vocazione maggioritaria’, tanto decantata da Veltroni nel discorso del Lingotto di quel fatidico 14 ottobre 2007, alla sconfitta alle politiche della primavera successiva contro il “principale esponente dello schieramento avverso” (si legga Silvio Berlusconi). A Veltroni serve a ben poco quel 34% che resta tutt’ora il secondo miglior risultato di sempre dopo l’exploit del 40% alle Europee del 2014. Per lui sono fatali le Regionali in Sardegna dove, a sorpresa, il governatore uscente Renato Soru perde con 9 punti di distacco. Bersani, ricordando che “si vince col 51%” e che da soli è impossibile prenderlo, lo costringe alle dimissioni e ne prende il posto, dopo aver vinto le primarie di misura (53 a 47) contro Dario Franceschini, all’epoca segretario ad interim.
Bersani dal 2009 al 2013 mette su ‘la ditta’, termine brutale che sta a significare il ritorno al ‘partito pesante’ e al centrosinistra col trattino. Anzi, nelle intenzioni di Bersani, il Pd doveva diventare un partito di sinistra-centro, ossia un partito che, partendo dall’esperienza della socialdemocrazia europea, si apre alle forze moderate come l’Udc. L’anno d’oro di Bersani è senza dubbio il 2011 quando il centrodestra non soltanto perde i 4 referendum sui ‘beni comuni’ e le amministrative tinte di arancione (colore dei candidati sindaci a sinistra del Pd), ma Berlusconi si dimette persino da premier.
Questo, per Bersani, doveva e poteva essere il momento di salire a Palazzo Chigi ma il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, impone il governo tecnico guidato da Mario Monti. Passano due anni di severa austerity con Bruxelles che impone anche il fiscal compact e Bersani perde tutto il vantaggio che aveva. Battere 60 a 40 il ‘rottamatore’ Renzi alle primarie per la scelta del candidato premier del centrosinistra non gli basta a ‘smacchiare il giaguaro’ Berlusconi. Il Cavaliere recupera buona parte dello svantaggio che aveva grazie alla partecipazione al programma di Michele Santoro. Una sua spolverata alla sedia di Travaglio è sufficiente per arrivare a un inaspettato ‘pareggio’, complice anche l’exploit del Movimento Cinquestelle. Bersani è, quindi, costretto ad ammettere la sua sconfitta: “Non abbiamo vinto anche se siamo arrivati primi”.
Da qui inizia la sua parabola discendente che culminerà con la mancata elezione al Colle prima di Franco Marini e, poi, di Romano Prodi per mano di 101 franchi tiratori. Poi, sappiamo tutti com’è andata a finire: mentre Letta sale a Palazzo Chigi con i voti di Forza Italia, Bersani lascia e Guglielmo Epifani, ex leader della Cgil, diventa segretario fino alle primarie del 2013 che segnano la prima di vittoria di Renzi. In questo frangente, intanto, nel Pd infuria la tempesta per colpa dei repentini cambi di ‘corrente’. Bersaniani, franceschiniani e lettiani diventano “renziani della seconda ora”.
La resa dei conti tra Renzi e Letta, i due ex democristiani toscani che non si sono mai sopportati, è vicina. Il primo, eletto segretario con il 67%, si sbarazza del secondo con tre semplici parole (“Enrico stai sereno”) e ne prende il posto come nelle più classiche trame di palazzo. Il resto è troppo presto per definirla ‘storia’ anche se sembra passato un secolo da quel 40% ottenuto alle Europee del 2014. Jobs act, riforma costituzionale, Italicum e referendum del 4 dicembre sono le tappe fondamentali che segnano un solco di separazione netta tra Renzi e la sinistra dem che, proprio in prossimità delle ultime primarie, decide di strappare definitivamente. Per riassumere si può dire che il Pd è nato ed è morto per merito e per colpa delle primarie. Ancora oggi, tra cavilli statutari e procedurali, non è chiaro se il segretario del partito è automaticamente anche il candidato premier oppure no.
“Non mi interessa chi farà il premier”, ha detto ieri Renzi che sull’inscindibilità delle due cariche aveva fatto il suo cavallo di battaglia e, ora, che un suo fedelissimo, Paolo Gentiloni, è capo del governo, non sa che pesci prendere. A distanza di dieci anni, dopo 4 governi consecutivi col centrodestra (Monti, Letta, Renzi e Gentiloni) e l’approvazione del Rosatellum, il Pd si presenta alle elezioni più che come un partito a vocazione maggioritaria come un partito a vocazione proporzionale, nella speranza di prendere uno zero virgola in più degli altri per continuare a sopravvivere.