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Vi spiego perché la crema catalana preparata da Puigdemont è acida

Il calendario segna la data fatale: 10 ottobre. È il giorno del giudizio, la chiamata della storia per la Catalogna che due domeniche fa ha sfidato Madrid e la sua Guardia civil chiamata a sequestrare urne e schede elettorali. L’uomo del momento è Carles Puigdemont. Quando a Barcellona scoccano le 18, gli occhi del mondo e del migliaio di corrispondenti arrivati da ogni dove sono puntati su di lui, il president della Generalitat, giornalista, ex sindaco di Girona, agitatore in giacca e cravatta che ha tenuto in scacco il premier spagnolo Mariano Rajoy e il re Felipe VI, protagonisti loro malgrado della partita più delicata della loro vita politica.

Ma c’è un colpo di scena. La seduta del Parlament, chiamato a ratificare il referendum del 1 ottobre e a pronunciare la fatidica Dui, la Dichiarazione unilaterale d’indipendenza, è rinviata di un’ora. Gli scranni si svuotano, nell’aula rimangono solo una ventina di fotografi che aspettano, ora, l’ingresso dell’uomo che deciderà il destino della Comunità autonoma di Catalogna: monarchia o repubblica? Secessione o negoziato?

Si rincorrono le voci: al cellulare di Puigdemont è arrivata la chiamata di Jean-Claude Juncker, no, all’altro capo del filo c’è David Tusk, il polacco che presiede il Consiglio europeo, che poche ore prima, parlando al Comitato europeo delle Regioni si era rivolto direttamente a lui, per esortarlo alla moderazione: “Mr. Carles Puigdemont”. Per sessantacinque minuti, le televisioni globali inquadrano i banchi di legno con tessuto rosso del Parlament. Conduttori e ospiti, nella lunga diretta, accavallano le parole e le ipotesi: se ci sarà la Dui, scatterà o no l’articolo 155 della costituzione spagnola e la conseguente sospensione dell’autonomia della Catalogna, l’opzione nucleare? E se sì, ci sarà il tintinnio di manette invocato dagli unionisti più irriducibili? Oppure no, niente di tutto questo, la voce del president non scandirà quelle dodici lettere fatali e chiederà una mediazione, l’ultima chance per la Spagna di rimanere integra, e un sospiro di sollievo per i capi di stato e di governo dell’Europa tutta, che temono il risvegliarsi delle utopie secessioniste di casa propria, dalla Scozia alla Corsica alle Fiandre?

La tensione è alle stelle, il tic tac dell’orologio procede lento ma inesorabile. Fino a quando – poco prima delle sette – eccoli, i consiglieri, incedere nell’aula. Uno a uno, prendono posto. Le telecamere e i teleobiettivi aspettano però lui, Carles il catalano, l’uomo da cui tutto dipende. Finalmente, quando le sette sono passate da pochi minuti, eccolo. Sorride, ostenta sicurezza. Tutti squadrano quel volto enigmatico, dietro al quale frullano, forse sì forse no, le sillabe più attese del ventunesimo secolo: in-di-pen-den-za. Si siede anche lui. Passa qualche minuto, interminabile. Nelle redazioni di tutto il mondo i traduttori scaldano i motori. Fino a quando, sono le 19:07, la presidente dell’assemblea apre i lavori. Un’introduzione in sordina, parlando d’altro, dopo di che la chiamata. Tocca a lei, president.

Tra gli applausi, Puigdemont prende la parola. Un discorso che dura quaranta minuti e contiene tutti gli ingredienti dello psicodramma che si è consumato in questa regione d’Europa. Il duello con Madrid. Le violenze della polizia. La pertinacia dei catalani, oltre due milioni, che hanno scritto il loro “sì” sulle schede contese. Dovrà passare più di mezz’ora, però, prima di sentire le espressioni evocate da tutti. “Assumo il mandato del popolo perché la Catalogna si converta in uno Stato indipendente in forma di repubblica”. Indipendente. Repubblica. Lo strappo si è consumato. Non c’è il tempo per aggiornare i titoli dei lanci di agenzia, però, che arriva il colpo di scena. “Il governo e io stesso proponiamo che il Parlamento sospenda gli effetti della dichiarazione di indipendenza per avviare un processo di dialogo”.

Dialogo. Eccola qui, la parolina magica, che i leader europei speravano scaturisse dal discorso di Puigdemont. Lo scenario peggiore – lo strappo – non c’è stato. L’indipendenza c’è, ma è sospesa. Hanno vinto Ada Colau, la sindaca di Barcellona autonomista ma fautrice del negoziato, e Pablo Iglesias, il leader di Podemos che molti individuavano come candidato ad una mediazione tra Generalitat e governo Rajoy. Il ricatto c’è, ma è smorzato dalla prospettiva di lunghe settimane di discussioni, conciliaboli, telefonate.

Si apre ora la trattativa più complessa che la Spagna democratica abbia sperimentato nei suoi quarant’anni di vita. Barcellona porterà all’acqua di questo mulino il 43% di elettori che hanno partecipato al referendum. Madrid farà valere le ragioni della Costituzione, che sancisce l’indissolubilità della nazione. In mezzo c’è la soluzione che sarà alla basca – maggiore autonomia fiscale per la Catalogna – o, nello scenario più ottimista, l’assetto federale dello Stato.

Quale che sarà la fine di questo dramma alla catalana, una cosa è certa: tutti ci ricorderemo di lui, Carles Puigdemont, il secessionista che nel suo giorno più più lungo ha dato un colpo al cerchio e uno alla botte. Indipendenza sì, ma sospesa.

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