Controllo giudiziario delle imprese a rischio di infiltrazioni mafiose e amministrazione giudiziaria di beni e aziende sulla base del semplice indizio che il libero svolgimento dell’attività economica possa agevolare l’attività di condannati o semplici imputati di delitti di mafia o gravi reati contro la pubblica amministrazione. Potenzialmente la riforma del Codice antimafia approvata in via definitiva dal Parlamento il 28 settembre ha messo in mano ai giudici e all’Anac, l’Autorità nazionale anticorruzione, gli strumenti per commissariare gran parte del sistema economico.
Almeno sul piano ideologico è una svolta decisiva che segna la messa in un angolo della libertà d’iniziativa economica. D’altra parte, vista la pervasività del fenomeno mafioso che da tempo si è infiltrato in modi molto diversi nel sistema produttivo e finanziario, non c’era forse altra scelta, se si voleva dare un segnale chiaro della volontà dello Stato di combattere in modo deciso le ramificazioni mafiose più diverse, la corruzione nella Pa, l’evasione fiscale. Il tentativo è quello di approntare gli strumenti legislativi per mettere sotto stretta sorveglianza le imprese proprio perchè il fenomeno mafioso è sempre più diffuso, ramificato, capillare, inserito in contesti economici e sociali assai diversi. Si può dire che sia diventata una vera e propria metodologia di gestione dell’attività di impresa.
Infatti le regole approvate nei giorni scorsi sono, almeno sulla carta, dirompenti. L’amministrazione giudiziaria di beni e aziende può partire sulla base di una valutazione Anac se si verifica che ci sono sufficienti indizi che nella gestione di appalti pubblici ci siano infiltrazioni mafiose. Indizi! Si introduce un controllo giudiziario che può durare fino a tre anni per le aziende a rischio di infiltrazioni mafiose. Si estende a tutti i beni aziendali il sequestro di partecipazioni sociali totalitarie.
Si rafforza la possibilità della confisca di beni o denaro, nel senso che la legittima provenienza degli stessi non può essere giustificata adducendo che il denaro necessario per acquistarli è frutto di evasione fiscale. Inoltre si amplia la possibilità di sequestro e confisca per equivalente ad alcuni ecoreati e all’autoriciclaggio. Infine il sequestro dei beni è stato esteso a chi è indiziato (bastano gli indizi!) di assistenza agli associati a delinquere o di far parte di un’associazione a delinquere finalizzata ad alcuni reati contro la pubblica amministrazione come peculato, corruzione, concussione, induzione indebita a dare o promettere utilità.
Misure da codice di guerra. L’obiettivo è chiaro: corrispondere alla pervasività del metodo mafioso con la pervasività del controllo giudiziario. Cosa questo comporterà sul sistema economico del Paese e sulla gestione dell’attività di impresa sarà tutto da vedere. Ma già da ora si può dire che, se il meccanismo della libera concorrenza tipico di un sistema democratico e liberale è stato messo in difficoltà dalla diffusione di mentalità e metodi tipicamente mafiosi, ora viene scavalcato anche da un punto di vista ideologico da una legislazione d’emergenza. La riforma del Codice antimafia contiene anche norme organizzative volte a rendere più trasparente l’attribuzione degli incarichi di amministratore.
Infine, norme premiali per le imprese positive che appartengono allo stesso comparto dell’impresa sottoposta a sequestro e confisca: l’amministrazione giudiziaria può chiedere loro di contribuire (gratuitamente) alla gestione dell’impresa collusa, compensandola eventualmente con un diritto di prelazione nel caso quella mafiosa o un ramo di essa debba essere venduta. Si tratta in realtà del blocco originario che ha dato inizio all’elaborazione di questo provvedimento. L’esame parlamentare, durato più di quattro anni, ha poi fatto virare la riforma su un potenziale commissariamento dell’economia. Resta ora da vedere quali saranno i frutti di tali norme, nell’applicazione concreta che ne farà la magistratura.
(Articolo pubblicato su MF/Milano Finanza, quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi)