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Perché governo e Pd sulla Banca d’Italia si stanno incartando

Nella vita istituzionale della cosiddetta Prima Repubblica, che spesso affondava le radici nel sistema liberale della fine dell’ottocento, la nomina del governatore della Banca d’Italia era a vita. Essa era anche accompagnata dalla prassi che la successione avvenisse per linee interne, nel senso che tendenzialmente il direttore generale della Banca diveniva governatore. Un buon candidato alla successione veniva chiamato alla direzione generale. Lì si preparava a succedere al governatore, quando fosse venuto il momento. L’orientamento di Einaudi e poi di Menichella e anche di Carli era stato quello di non considerare davvero a vita il loro incarico, ma di sottoporre al governo le proprie dimissione entro il decimo anno dalla loro nomina.

Ma tutto avveniva in un clima di prudenza e di circospezione adatto alla delicatezza dei compiti e delle responsabilità di cui era investita la Banca d’Italia. Gli appetiti dei partiti, che pure erano molto potenti, tendevano ad arrestarsi sulla soglia di via Nazionale – la sede della Banca d’Italia – e la durata della carica e, soprattutto, l’inamovibilità del governatore tendevano a garantire la sostanziale indipendenza della Banca e la sua capacità di sottrarsi alle pressioni politiche dei partiti e dei governi. Forse era una situazione che stava stretta ai partiti stessi, che certo avrebbero preferito che la scelta per un incarico di questa importanza fosse ricompresa fra i poteri del governo e del sottogoverno, ma essa aveva continuato a funzionare ed a dare risultati nel complesso molto buoni.

Da questo punto di vista (e non è questo il solo esempio) le regole europee, introdotte con l’ingresso dell’Italia nell’Unione Monetaria Europea, non hanno rappresentato un passo in avanti. Al contrario hanno fatto nascere un problema dove invece non vi era (quasi) mai stato. Abbiamo dovuto uniformarci alle regole degli altri paesi sul mandato ai governatori delle banche centrali: non più il mandato a vita, ma un mandato di sei anni rinnovabile per una sola volta. Ora, se la carica di governatore è temporanea e rinnovabile, diventa abbastanza inevitabile che si possa discutere sia della performance passata del governatore, sia del profilo più adatto che il governatore dovrebbe avere. Si può trattare di discussioni in assoluta buona fede, ma dietro di esse può celarsi anche l’appetito dei partiti, nonostante i poteri delle Banche centrali nazionali si siano fortemente rid otti a favore della Bce.

Sfortunatamente è restata alla Banca d’Italia la vigilanza sulle banche e questo – in anni di crisi economica come quelli che abbiamo attraversato – ha voluto dire che Bankitalia si è trovata a dovere gestire situazioni molto difficili e a subire una doppia accusa a seconda degli interlocutori: di non avere denunciato e fatto scoppiare le crisi bancarie, ma anche di non averle sapute impedire e prevenire. Un’accusa per certi aspetti contraddittoria che consente di accomunare posizioni e critiche di carattere opposto.

Per fortuna, rispetto al rischio di politicizzazione della nomina del vertice della Banca d’Italia, la procedura italiana ha mantenuto ancora qualche vestigia del passato, nel senso che la proposta del nome spetta al Consiglio dei ministri su proposta del presidente del Consiglio, sentito il Consiglio superiore della Banca d’Italia (che dovrebbe garantire contro proposte troppo smaccatamente partitiche), mentre il decreto di nomina è del Presidente della Repubblica che non ha un obbligo di firma e quindi può esercitare un controllo sostanziale sulla qualità della nomina. E tuttavia ormai la nomina è politica e questo, in un certo senso, autorizza il Parlamento a intervenire con atti di indirizzo. In sostanza una volta prevista questa procedura, non si può evitare che il Parlamento, se lo ritiene, possa dire la sua al momento del rinnovo delle cariche e possa volere valutare sia l’azione passata del governatore, sia la figura che meglio potrebbe svolgere quel ruolo.

Il problema di ieri non è tanto il fatto che, in vicinanza della scadenza del mandato del governatore e della sua eventuale conferma, il Parlamento abbia deciso di discutere di cose di cui in passato non aveva mai discusso in questi termini, quanto nel fatto che è emerso un evidente contrasto fra la posizione del Governo e quella del principale partito che forma la maggioranza su cui poggia il governo stesso. Il contrasto, reso evidente dalla circostanza che il governo era all’oscuro dell’esistenza di una mozione del Pd e dei suoi contenuti e che abbia dovuto procedere a un difficile negoziato per ottenere alcune modifiche minacciando in caso contrario di non esprimere un avviso favorevole, è un contrasto che colpisce la solidità dell’esecutivo. Tra l’altro, se il governo avesse espresso avviso contrario alla mozione e la mozione fosse passata, oggi vi sarebbe probabilmente una crisi di governo in piena sessione di bilancio.

Questo è il vero problema emerso ieri. Nei sistemi parlamentari, tutte le decisioni dell’esecutivo sono potenzialmente soggette a uno scrutinio parlamentare – ad atti di indirizzo preventivo e ad atti di controllo successivo – né si può immaginare che la Banca d’Italia abbia uno status che la esenti da questi interventi. Questo conferma quanto era saggio il vecchio sistema della nomina senza scadenza. Ma quello che è indispensabile è che le materie più delicate vedano un coordinamento efficace fra la maggioiranza parlamentare che esprime il governo e l’esecutivo.

Maggioranza e governo debbono confrontare le loro posizioni e coordinarle tempestivamente per giungere nelle aule parlamentari con posizioni assolutamente coincidenti. Perché se questo non avviene, non solo emergono contrasti politici che indeboliscono l’esecutivo, ma si fanno ricadere le conseguenze anche al di fuori del perimetro dei rapporti fra maggioranza e governo.

Tutto questo non è solo la cronaca di un episodio parlamentare. Va considerato il danno al Paese, che è molto grave. Perché il problema della nomina del governatore della Banca d’Italia deve essere risolto fin dai prossimi giorni. Se non venisse riproposto il nome di Ignazio Visco, contro il quale non vi è alcun addebito evidente, si percepirebbe una drammatica debolezza del governo e della stessa Presidenza della Repubblica. Nello stesso tempo, la nomina di Visco parte con il piede sbagliato, perché sarà evidente che essa avviene contro il pensiero del partito di maggioranza relativa, mentre l’Italia ha bisogno di un governatore dotato della massima autorevolezza. E tuttavia questa è oggi la soluzione necessaria.

Ricordiamo che la crisi economica è stata la causa vera delle crisi bancarie. E una volta che una banca va in crisi, le perdite sono comunque ingenti. Oggi le regole europee vietano quel tipo di interventi con cui in passato governatori e ministri del tesoro risolvevano le situazioni di crisi. Abbiamo accettato senza discutere l’idea del bail-in; abbiamo accettato la cosiddetta unione bancaria senza pretendere che si convenisse su un meccanismo di risoluzione; siamo, come notano in molti, deboli in sede internazionale. Cerchiamo di prepararci agli incontri in sede europea con delle posizioni più forti. Per farlo abbiamo bisogno di più coesione, non di più divisioni.

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