Per la borsa si è trattato di una doccia ghiacciata, ma i banchieri italiani non sono stati colti del tutto di sorpresa dal nuovo diktat di Bce. Qualche indicazione era filtrata nei mesi scorsi, anche a seguito degli insistenti confronti tra i livelli di provisioning e write off a livello europeo. «Un innalzamento drastico delle coperture era nell’aria», si confida un banchiere a MF-Milano Finanza. «A stupire sono invece i tempi serrati imposti dalla Bce, che ci chiede di svalutare completamente i crediti non garantiti in appena due anni».
Ai vertici degli istituti domina l’indignazione, perché proprio nel 2017 le banche italiane hanno iniziato a ridurre drasticamente il volume dei non performing loan in portafoglio con massicci programmi di cessioni. Secondo le previsioni degli esperti entro la fine dell’anno gli istituti potrebbero deconsolidare fino a 100 miliardi di crediti deteriorati, riducendo drasticamente lo stock complessivo. Al contempo sono state messe a punto articolate strategie di gestione che si avvalgono sia di risorse interne che, nella maggior parte dei casi, di servicer esterni.
Il fatto fondamentale però è che le grandi banche stanno lavorando intensamente sulla data quality, dalla valutazione delle garanzie all’aggiornamento delle curve di recupero, colmando un gap che fino a pochi anni fa era ancora immenso. Se infatti la qualità del dato migliora, la vendita non sarà più all’ingrosso ma consentirà di valorizzare le peculiarità specifiche del portafoglio. Questi sforzi, uniti alle inferiori attese di rendimento degli investitori internazionali specializzati (scesi mediamente dal 25% al 12-15% in termini di irr), stanno consentendo di restringere la forbice tra valori di bilancio e prezzi di mercato. Oggi insomma per le banche è possibile limitare i danni di una cessione.
Non bisogna peraltro dimenticare un altro aspetto: negli ultimi anni tutte le banche hanno alzato l’asticella delle coperture sia sulle sofferenze che sugli incagli, con evidenti effetti sui conti economici e sul capitale. Basti pensare che sulle esposizioni deteriorate complessive Unicredit è passata dal 51,3% del 2014 al 56,3% alla fine del primo semestre di quest’anno, anche grazie alla drastica azione di pulizia sugli attivi realizzata dall’amministratore delegato Jean Pierre Mustier. In questo ambito ogni banca ha compiuto le scelte più consone al proprio portafoglio crediti e alla propria strategia di derisking.
«Non esiste un livello di copertura migliore o peggiore in termini assoluti», spiega un banchiere. «Se una banca ha un alto livello di collaterizzazione, con un buon rapporto tra valore delle garanzie e book value, allora può anche permettersi coperture inferiori alle media di mercato. Viceversa, è prudente svalutare portafogli prevalentemente chirografari». Il che peraltro spiega perché nel settore degli npl non esista un prezzo giusto per cedere un credito. Basti guardare alle transazioni chiuse negli ultimi mesi: il portafoglio Fino di Unicredit è stato ceduto a Fortress e Pimco al 13% del nominale, mentre Banco Bpm ha venduto ad Algebris lo stock Rainbow a un valore superiore al 35%. Una ragione in più per dubitare della livella imposta da Francoforte.
«Tutti abbiamo iniziato a vendere. Alcuni molto più degli altri», spiega un banchiere. Ha iniziato in grande stile Unicredit che, con il progetto Fino, ha messo sul mercato 17,7 miliardi e adesso sta trattando la cessione di un ulteriore portafoglio dal valore superiore al miliardo. Intesa Sanpaolo si è mossa con maggiore prudenza, anche se prima dell’estate ha chiuso il progetto Beyond the clouds: la vendita di uno stock da 2,1 miliardi a una cordata composta da Christofferson Robb & Company (Crc), Bayview e Prelios Credit Servicing.
Proprio nei giorni alla Ca’ de Sass dovrebbero arrivare le offerte per l’operazione Rep (nuovo nome del Project Monopoli) per cui sarebbero in lizza Gwm in tandem con Pimco, Pillarstone insieme a Kkr e Coima, e infine Tpg insieme a Starwood e Prelios . Nel frattempo si è mosso anche Banco Bpm che subito dopo la fusione ha messo in cantiere un serrato programma di fusioni: la cessione di un portafoglio prevalentemente ipotecario da 693 milioni e di uno stock unsecured da 2 miliardi e una cartolarizzazione con garanzia pubblica (Gacs) da tre miliardi.
L’obiettivo del gruppo guidato da Giuseppe Castagna è cedere 8 miliardi entro il 2019. E mentre Rev e Sga smaltiranno i deteriorati delle banche salvate, la più grande operazione del mercato è attesa ai nastri di partenza nel 2018: si tratta della cartolarizzazione da 26 miliardi che il Montepaschi ormai nazionalizzato lancerà per smaltire l’intero portafoglio di sofferenze. Di tutti questi sforzi evidentemente Bce non tiene conto. Così come non tiene conto dei progressi avvenuti sul fronte dei recuperi. I grandi gruppi hanno predisposto strutture apposite per gestire internamente gli stock nel tempo ed estrarre valore. Si tratta ad esempio di una strategia su cui sta investendo molto Intesa con la divisione Capital Light Bank. L’obbligo a svalutare interamente i deteriorati renderà però più convenienti le cessioni rispetto alle gestioni in termini di costo-opportunità, con buona pace di chi aveva in mente strategie alternative.
(Articolo pubblicato su MF/Milano Finanza, quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi)