Mario Draghi nel dibattito pubblico del nostro paese è solitamente intoccabile. Il presidente della Banca centrale europea – scherza qualcuno – per la politica italiana è una sorta di Madonna pellegrina: ovunque vada, raccoglie omaggi e inchini. Ed è comprensibile, d’altronde. La politica monetaria ultra-espansiva messa in campo dalla Bce, infatti, è stata in questi anni l’unica arma anti speculazione e l’unico strumento pro crescita sulla cui utilità c’è consenso unanime nel nostro Paese. Una politica monetaria che Draghi ha penato non poco a far digerire a Francoforte, e di cui l’Italia è stata certamente una delle principali beneficiarie.
Per queste ragioni risalta la scudisciata che ieri il ministro dell’Economia italiano, Piercarlo Padoan, ha rivolto proprio alla Banca centrale: “Ho delle perplessità sui modi e sui contenuti della comunicazione”, ha detto commentando l’ipotesi di svalutazione integrale automatica degli Npl messa in consultazione dalla vigilanza della Banca centrale europea (Bce). Prima c’era stato il tweet del segretario del Pd, Matteo Renzi: “Se passano nuove regole, il credito alle piccole aziende sarà impossibile. Stanno compiendo gli stessi errori 2013. Europa sì, ma non così”. Si dirà: la comunicazione sugli Npl è formalmente farina del sacco di Danièle Nouy, presidente del Consiglio di vigilanza della Bce (SSM), non di Draghi. Vero. A maggior ragione dunque fa pensare il fatto che le autorità politiche italiane non vadano tanto per il sottile nelle loro critiche pubbliche rivolte in queste ore alla Bce nel suo complesso. Al punto che il presidente del Parlamento europeo, l’italiano e forzista Antonio Tajani, ha scritto una lettera aperta – rilanciata oggi sulla prima pagina del Sole 24 Ore – in cui chiede più rispetto per l’aula di Bruxelles/Strasburgo, indirizzando tale missiva proprio a Draghi.
All’Eurotower non sembra si siano troppo stupiti. Ogni volta che si toccano le banche italiane, il Belpaese si esibisce nel suo migliore catenaccio diplomatico. Purtroppo – ma questo lo dovrebbero dire i correntisti e i contribuenti – questo catenaccio arriva quasi sempre in ritardo, quando cioè il nostro paese – per rimanere alla metafora calcistica – ha già preso gol in abbondanza. Alla fine del 2016, il ministro Padoan recitò un copione simile. Parlando a un forum organizzato dal Sole 24 Ore, lo scorso 29 dicembre, il solitamente diplomatico Padoan disse – riferendosi esplicitamente alla Bce – che “la mancanza di informazione si traduce in opacità e le cose opache inducono a interpretazioni quasi sempre sbagliate”. I titoli d’agenzia e di giornale furono presto fatti: “Padoan: ‘Opacità in criteri vigilanza Bce’”. Cosa aveva fatto di male Francoforte in quel frangente? Aveva fatto intendere che per una volta fallito l’aumento di mercato da 5 miliardi di euro per il Monte dei Paschi di Siena, il conto per la sua messa in sicurezza sarebbe potuto salire fino a 8,8 miliardi (di cui 4,5 miliardi direttamente a carico dello Stato, gli altri 4,3 degli obbligazionisti ma con circa 2 miliardi rimborsabili sempre dallo Stato ai bondholder retail). La Bce allora fece trapelare via retroscena il proprio disappunto per l’attacco a freddo del governo, visto tra l’altro che l’evoluzione del dossier Mps sarebbe dipesa pure dal nuovo piano industriale. Nel frattempo, a schermaglie in corso, gli azionisti che avevano in portafoglio titoli bancari avevano subìto perdite non da poco.
C’è un altro precedente che occorre ricordare e che nel 2014 ha visto contrapposta la Banca centrale europea a un establishment italiano – praticamente al completo: dall’Abi a Banca d’Italia passando per il governo – colto totalmente alla sprovvista da una decisione di Francoforte. Parliamo dei primi stress test della Bce sui principali istituto di credito europei, i cui risultati vennero comunicati il 26 ottobre di tre anni fa. La Banca centrale europea allora fece sapere che 25 banche del Vecchio continente avrebbero dovuto presentare, entro il 10 novembre di quell’anno, un piano con l’illustrazione degli aumenti di capitale già portati a termine e altre misure prudenziali. Di quelle 25 banche attenzionate, 9 avevano passaporto italiano. Per le autorità bancarie e politiche di Roma fu una doccia fredda. Fin dai primi minuti la Banca d’Italia si impegnò per sottolineare agli occhi della stampa e dei mercati come alcuni di questi istituti, nel corso del 2014, avessero già risolto la maggior parte dei loro problemi senza che la Bce ne tenesse conto nel suo test. Da Palazzo Koch sottolinearono che lo stress test, per le modalità con cui era stato eseguito, era risultato “molto severo” con gli istituti italiani. Addirittura ingiusto, fecero capire in conferenza stampa. Solo Giuseppe Guzzetti, allora presidente della Cariplo e dell’Acri, pur sollevando anch’egli alcune obiezioni ai criteri utilizzati dalla Bce per fare le analisi del sangue alle banche, aggiunse che questo episodio mostrava di nuovo quanto pesasse l’assenza di italiani ai vertici delle burocrazie europee – fatta eccezione per Mario Draghi “ che dobbiamo sempre ringraziare per quello che fa”: “Non vorrei essere dissacrante ma un grande politico, Giovanni Marcora, diceva che quando è stata costruita l’Europa l’Italia ha barattato un direttore generale con tre impiegati e due autisti. Non siamo molto lontano”. Una lezione, quella di Guzzetti, evidentemente inascoltata, se nell’estate del 2016, di fronte a un’altra tornata di stress test bancari, l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi confidò al Corriere della Sera che quello predisposto dalla Bce era “un esercizio sbagliato”. Rimbrotti quasi sempre tardivi – quelli di Roma – che certo non devono facilitare il compito di Draghi e il suo tentativo di difendere l’interesse dei paesi dell’euro, Italia inclusa.