E fu così che in Spagna, alla fine, nessuno dei due contendenti frenò la propria corsa: lo stato centrale madrileno da una parte, e gli organi di governo della Catalogna dall’altra, sono finiti per precipitare entrambi nel baratro. Una conclusione inevitabile, per un popolo il cui motto preferito è: “Lo cortés no quita lo valiente”. Nessuno deve illudersi: il rispetto delle forme, la cortesia, non fa venir meno la determinazione assoluta nel sostenere le ragioni del proprio ruolo.
Volteggiano entrambi ora nell’incertezza, nel vuoto della razionalità, alla ricerca di una soluzione: stando alle dichiarazioni del premier spagnolo Mariano Rajoy, domenica 1° ottobre il referendum sulla indipendenza non si è tenuto, non è successo nulla che abbia avuto rilievo dal punto di vista legale; di converso, a conclusione degli scrutini il presidente catalano Carles Puigdemont ha annunciato che ne comunicherà l’esito al Parlamento della Catalogna per la proclamazione dell’Indipendenza e della Repubblica.
La questione non è di legalità formale, sia da una parte che dall’altra, bensì di effettività: non basta negare che il referendum sia avvenuto o proclamarne il successo per fermare un processo politico in corso o portarlo alle estreme conseguenze. Il diritto costituzionale, come quello internazionale vivono della realtà: per riportarla nell’alveo della legalità costituzionale spagnola, Rajoy ha annunciato che convocherà subito le forze politiche, auspicando il dialogo nel quadro della legge e della democrazia; per dare seguito alla proclamazione di Indipendenza della Catalogna nell’alveo della legalità internazionale, Puigdemont si è appellato all’Europa, “che non può girarsi dall’altra parte”.
Rajoy vuole una mediazione a Madrid, ripartendo da zero; Puigdemont vuole una mediazione a Bruxelles, per andare avanti.
Per la Unione europea, quella spagnola è una crisi ancora peggiore delle precedenti. Dimostra ancora una volta che l’Unione europea si fonda sugli squilibri tra gli Stati e sulla mancanza di solidarietà. Il boom spagnolo non ebbe uguali: fra il 2000 ed il 2007, il pil crebbe del 30%; il debito pubblico scese dal 59,9% al 35,5%, migliorando di 22,4 punti; il bilancio pubblico era stato complessivamente in avanzo del 3%, considerando che nel solo 2006 era stato del 2,6% e nel 2007 del 2%. L’Italia, per fare un paragone, aveva ridotto il rapporto debito/pil dell’11%, ma aveva accumulato deficit per il 24% del pil.
Sul versante internazionale, i conti spagnoli andavano a picco: tra il 2000 ed il 2007 il deficit delle partite correnti era stato complessivamente del 48% del pil, accumulando un passivo di 520 miliardi di dollari. L’indebitamento bancario della Spagna verso l’estero non conosceva soste: dai 434 miliardi di dollari del 2005 passò ai 1.078 miliardi di dollari del 2008. La exit strategy decisa dalla Bce nel 2011 indusse le banche del nord Europa a ritirare di corsa i prestiti alla Spagna, che crollarono a 569 miliardi di dollari nel primo trimestre del 2012. L’intervento europeo, attraverso l’Esm, non fece che sostituire crediti privati con denari pubblici.
La eredità è pesantissima: in Spagna, il rapporto debito pubblico/pil è arrivato quest’anno al 98,5%. La posizione finanziaria netta verso l’estero a fine 2016 era passiva per 950 miliardi di euro, pari all’85,7% del pil. Tra i dodici Paesi che risultano in fondo della classifica mondiale del Fmi per passività internazionali nette, ben dieci sono aderenti alla Ue: a scendere, troviamo Slovacchia, Lituania, Ungheria, Polonia, Croazia, Spagna, Portogallo, Cipro, Grecia ed Irlanda. Stanno fuori dall’Ue solo Nuova Zelanda ed Islanda. Sul versante opposto, con una posizione attiva pari al 54,4% del pil, troviamo la Germania, che l’ha accumulata a partire dal 2000.
Questa è l’Europa dei forti, quella a cui la Catalogna aspira, lasciandosi alle spalle la Spagna: se occupa appena il 6% del territorio spagnolo, in essa vive il 16% della popolazione che produce il 20% del pil ed esporta il 26% del totale. Oltre all’industria, ha il turismo: Barcellona è il primo porto crocieristico del Mediterraneo, e la regione catalana è meta di ben 8 milioni di persone sui 20 totali della Spagna, potendo contare sulla ricettività delle Isole Baleari e della Costa Brava.
Le élite sociali, non solo quelle burocratiche e finanziarie, dominano i processi politici: non solo a Bruxelles, ma ormai anche a Madrid ed a Barcellona. Mentre evaporano le famiglie politiche tradizionali, popolari e socialisti, fondate sulla solidarietà territoriale e sociale, emergono formazioni incapaci di un consenso ampio e diffuso, che vanno allo scontro senza tentennamenti.
È una Europa fatta a morsi, uno dopo l’altro: c’è chi ha già deciso di uscire dall’Unione pur avendo una sua moneta, come la Gran Bretagna; chi, come Marine Le Pen candidata alla Presidenza della Repubblica francese avrebbe vorrebbe abbandonare l’Eurozona ma non l’Unione; c’è chi non rispetta i Trattati di Schengen e chi non accetta i ricollocamenti degli immigrati; chi, come la Catalogna, ora chiede l’appoggio per la secessione mantenendo l’euro e divenendo membro dell’Unione.
Questa fa continuamente prevalere le ragioni del mercato ed i principi indefettibili di libertà di movimento ad esso funzionali, rispetto ai valori fondativi degli Stati moderni, rappresentati dalla solidarietà e dai doveri derivanti dalla comune appartenenza. L’obiettivo più ambizioso è quello di essere un’area monetaria ottimale, mentre quello minimo è solo evitare le crisi finanziarie sistemiche. A nessuno importa più avere un Continente in cui i valori e le culture tradizionali convivano in modo equilibrato per promuovere la prosperità comune.
Barcellona pensa che, abbandonando Madrid, sarà più libera e più prospera. Si illude: è già isolata in Spagna, e non avrà alcun aiuto europeo. Madrid è andata allo scontro come alla corrida.
Quella del 1° ottobre è stata, per tutti, una notte di incubi. Senza solidarietà e senza equilibrio, precipitiamo tutti.
Pubblicato su MF/Milano Finanza, quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi