Abbiamo parlato nei giorni scorsi del Russiagate che coinvolge i Clinton e l’amministrazione Obama, l’affaire Rosatom-Uranium One. Ma a che punto è il Russiagate che coinvolge Trump, ovvero l’inchiesta sulla presunta collusione tra la campagna Trump e la Russia per “truccare” le elezioni presidenziali?
Sebbene molti ormai lo sospettassero da tempo, emerge adesso anche da un’inchiesta del Washington Post che la campagna Clinton e il Comitato democratico (Dnc) pagarono per il dossier-bufala su Trump che innescò il Russiagate.
Marc E. Elias, loro legale rappresentante, si rivolse infatti alla Fusion Gps, un’azienda di Washington, per condurre ricerche sul candidato avversario nella corsa alla Casa Bianca. Ricerche che dall’aprile 2016 proseguirono per tutta la durata della campagna elettorale. In particolare, la Fusion si rivolse a sua volta all’ex agente britannico Christopher Steele, con una vasta esperienza in Russia ma anche legami con l’Fbi e la comunità di intelligence statunitense. La campagna Clinton pagò 5,6 milioni di dollari alla Perkins Coie, la società di Elias, tra il giugno 2015 e il dicembre 2016, mentre il Dnc 3,6 milioni dal novembre 2015, ma ovviamente è impossibile stabilire quanti per servizi legali e quanti per le ricerche della Fusion Gps, cioè di Steele.
Ma va detto che è piuttosto usuale nelle campagne americane che i comitati elettorali assumano investigatori o agenzie per scovare gli “scheletri nell’armadio” dei candidati avversari. Molto meno normale, tuttavia, il ruolo giocato in questa vicenda dall’Fbi, dall’amministrazione Obama, e il fatto che la Fusion Gps stesse lavorando anche per i russi, oltre che per la Clinton.
Stiamo parlando, come detto, del dossier-bufala dal quale prese il via il Russiagate. Non un dettaglio, dunque. I pagamenti della campagna Clinton alla Fusion sono tutto sommato la punta dell’iceberg. Il grosso della storia sta nell’uso che l’Fbi e la Casa Bianca di Obama hanno fatto del dossier Steele.
Ma procediamo con ordine. Alcune delle accuse contenute nel dossier, scrive il Washington Post, cominciano a circolare a Washington nell’estate del 2016, proprio quando l’Fbi avvia la sua indagine di controintelligence sui possibili legami tra i partner di Trump e il Cremlino. Circolano per mesi anche tra i reporter che seguono la campagna, ma essendo basate su fonti anonime ed essendo del tutto inverificabili, nessun media rispettabile le riporta. Nello stesso periodo, Steele condivide alcune delle sue “scoperte” con l’Fbi. E poco prima delle elezioni dell’8 novembre, riesce persino a raggiungere un accordo con l’agenzia per continuare dietro pagamento a raccogliere informazioni di intelligence su Trump e la Russia. Ma l’Fbi recede dall’accordo quasi subito, dopo che Steele viene pubblicamente identificato, quindi non è chiaro se siano stati effettuati o meno dei pagamenti. Cosa è successo? Il 10 gennaio BuzzFeed ha rivelato l’esistenza del dossier ad opera di Steele. Ma come mai improvvisamente i media se ne occupano? Nel frattempo, un leak governativo ha rivelato alla stampa che sia il presidente Obama che il presidente eletto Trump sono stati informati dall’intelligence sul dossier Steele, di fatto sdoganandolo. Se ne sono stati informati, qualcosa di vero dev’esserci…
E invece, il dossier confezionato da Steele per la Fusion, e per la campagna Clinton, è del tutto inaccurato, inaffidabile, basato su accuse mai verificate provenienti quasi esclusivamente da fonti anonime russe, per lo più legate al Cremlino e al presidente Putin, per ammissione dello stesso Steele (“a senior Russian Foreign Ministry figure”, a former “top level Russian intelligence officer active inside the Kremlin”, a “senior Kremlin official”, a “senior Russian government official”).
Follow the money… Dalla campagna Clinton e dal Comitato democratico a una società legale, da questa alla Fusion, dalla Fusion a Steele, da questi alle sue fonti russe. Non la campagna Trump, ma la Clinton e i Democratici potrebbero aver permesso alla Russia di mettere un piede nel processo politico americano per destabilizzarlo.
Ma a questo punto tutta l’attenzione del caso è sull’Fbi. Potrebbe essere stata proprio l’Fbi guidata da Comey a facilitare le ingerenze russe nella politica americana. Quando esattamente il dossier è arrivato sul suo tavolo? Che uso ne ha fatto? L’ha ritenuto così attendibile da accettare di pagare Steele per assicurarsi i suoi servizi?
L’idea stessa che l’Fbi possa aver pensato di pagare Steele, lo stesso “informatore” pagato tramite la Fusion Gps dalla campagna Clinton e dal Dnc, per indagare sul presidente eletto solleva interrogativi inquietanti sull’indipendenza politica dell’agenzia, così come sull’uso della legge e delle agenzie di intelligence a fini politici da parte dell’amministrazione Obama.
È possibile che l’Fbi abbia avviato l’indagine di contro-intelligence sul team Trump e i suoi legami con la Russia sulla base di un dossier “volgare e non verificato” (definizione dello stesso ex direttore James Comey), veicolato proprio dai servizi russi attraverso Steele, la Fusion e la campagna Clinton. Allo stato attuale delle cose si può affermare che il dossier anti-Trump di Steele rappresenta il più documentato tentativo di influenzare le elezioni presidenziali, e il processo post-elettorale, da parte dei russi. Insomma, Steele e l’Fbi volevano usare i russi, ma è più probabile che siano stati loro ad essere usati.
A questo punto l’Fbi e il Dipartimento di Giustizia di Obama dovrebbero rispondere a una semplicissima domanda: hanno utilizzato un dossier pagato dalla campagna Clinton e dai Democratici, con informazioni non verificate provenienti da fonti governative russe, per ottenere dalla Corte FISA un mandato a mettere sotto sorveglianza il team Trump durante e dopo la campagna elettorale? Delle due l’una: o hanno consapevolmente utilizzato queste false informazioni veicolate dai russi per delegittimare il presidente eletto, oppure si sono fatti giocare dai russi, credendole vere o verosimili, a tal punto da avviare un’indagine e chiedere e ottenere un mandato a sorvegliare i collaboratori di Trump.
Ne deriverebbe che anche l’indagine del procuratore speciale Mueller si basa principalmente su un dossier-bufala creato dai Democratici in collusione indiretta con la Russia e sui leaks illegali originati dall’ex direttore dell’Fbi James Comey.
Per malafede, per faziosità o per ingenuità, la politica e i media americani (ed europei) faticano ancora a capire la vera natura delle ingerenze russe. Putin non aveva alcun interesse a sostenere Trump, tra l’altro ritenendo come (quasi) tutti impossibile una sua vittoria. Gli sforzi di propaganda e disinformazione russi sono volti a paralizzare la politica americana e a screditare le sue istituzioni.
Se l’intenzione russa era quella di gettare nel caos il sistema politico americano, molto più efficace di un banale email phishing si è dimostrato un falso dossier che è riuscito se non a generare, almeno a far decollare un’indagine di contro-intelligence dell’Fbi, a scatenare polemiche politiche e inchieste del Congresso, e a portare persino alla nomina di un procuratore speciale sul caso, arrecando un grave danno al nuovo presidente Usa e alla sua piena agibilità politica interna ed estera.
Ma ormai molte ombre si stanno addensando sulla condotta dell’Fbi. Ombre che secondo Holman W. Jenkins del Wall Street Journal, rendono legittime le richieste al procuratore speciale Mueller di ricusare se stesso dall’indagine sul Russiagate. Non solo per l’uso del falso dossier anti-Trump, ma anche per i dubbi sulla gestione dell’emailgate di Hillary Clinton, e ancora per la copertura delle attività criminali russe nel settore nucleare americano al fine di non compromettere l’affare Rosatom-Uranium One, di cui abbiamo parlato pochi giorni fa. L’agenzia, allora guidata proprio da Mueller, ha messo per anni su un binario morto e “silenziato” un’indagine altamente imbarazzante per i Clinton così come per la politica del reset dell’amministrazione Obama nei confronti della Russia. Mueller oggi avrebbe i mezzi e i motivi per usare il suo incarico al fine di offuscare le responsabilità dell’agenzia.