E’ stato un accordo alla pari hanno assicurato Joe Kaeser, l’amministratore delegato della tedesca Siemens, e Henri Poupart-Lafargue, l’omologo della francese Alstom, martedì della scorsa settimana, in occasione dell’annuncio della fusione delle rispettive divisioni ferroviarie. Un passo che vuole essere all’altezza della sfida lanciata nel 2015 dai cinesi con la fusione delle loro due industrie ferroviarie di Stato diventate il colosso CRRC, attualmente il più grande gruppo ferroviario al mondo. Alla fine del 2016, CRRC contava 186.963 dipendenti e un giro di affari (dati 2015) per 32,15 miliardi di euro.
Dalla fusione Siemens-Alstom nasce invece un gruppo con 62.000 dipendenti e un giro di affari che dovrebbe arrivare a 15 miliardi di euro. Siemens ha poco più del 50 per cento delle quote. Già tre anni fa Kaeser avrebbe voluto portare a casa questa fusione. Ma i lavoratori si erano opposti, volevano che Siemens ottenesse la maggioranza delle azioni e dunque il controllo. Richieste esaudite ora, in più i lavoratori hanno ottenuto la garanzia che per i prossimi quattro anni non vi saranno licenziamenti.
C’è chi parla di un’alleanza stile Airbus, questa volta però su rotaie. Le cancellerie di Berlino e Parigi salutano l’accordo. Anche Jürgen Kerner, il capo del sindacato metalmeccanico IG Metall, si è detto soddisfatto, sottolineando gli effetti positivi che ne verrà all’economia europea nel suo insieme.
Più cauti nel giudizio si sono mostrati in Germania alcuni esperti del settore. Perché, se è vero che i lavoratori della Siemens, almeno per i prossimi quattro anni non dovranno temere di perdere il lavoro, non è lo stesso per i dipendenti tedeschi del gruppo ferroviario canadese Bombardier. Preoccupazione a tal proposito le ha espresse al sito finanzen.net Oliver Höbel, anche lui sindacalista di IG Metall dell’area Berlino-Brandenburgo-Sassonia, dove Bombardier ha il quartier generale tedesco e i suoi siti produttivi: “La fusione Siemens Alstom metterà ancora più sotto pressione Bombardier, che sotto pressione era già molto anche prima”.
Dello stesso avviso è anche Maria Leenen, esperta del settore. Secondo lei i dipendenti tedeschi di Bombardier rischiano di essere i grandi perdenti della fusione Siemens Alstom. E anche Ronald Pörner, professore al politecnico di Berlino ed ex presidente dell’industria ferroviaria tedesca, non si mosrato così tanto entusiasta dell’accordo. Pörner, in un’intervista alla Welt am Sonntag, ha messo in guardia dal fatto che la sorte di Bombardier potrebbe nuocere più di quanto si pensi alla Germania: “Perché con lo smantellamento dei canadesi, noi potremmo perdere lo status di grande produttore ferroviario”.
In effetti, spiegano i media tedeschi, Bombardier occupa 8500 persone in Germania e ha otto siti produttivi. Cifre che testimoniano una capacità produttiva ben più alta di quella di Siemens. Il fatto è che, da circa cinque anni, le fabbriche di Bombardier non hanno ottenuto abbastanza commesse per lavorare a pieno ritmo e conti sono dunque in rosso. Tagli futuri sono già stati annunciati, si parla di 2200 posti, anche se i licenziamenti non dovrebbero avvenire prima del 2019.
Un’altra analisi interessante riguardo alla fusione si leggeva qualche giorno fa sul quotidiano economico Handelsblatt. “C’è chi confronta l’accordo Siemens Alstom con la creazione di Airbus”, ha scritto Thomas Hanke: “Per molti politici Airbus è l’esempio per eccellenza della buona cooperazione tra imprese europee. E per questo vorrebbero un accordo alla Airbus anche per l’energia, per l’industria 4.0, per i mari. C’è solo da sperare che il fato sia clemente e non ci rifili una Airbus sulle rotaie. La costituzione di Airbus mezzo secolo fa (1965 nascita del consorzio tedesco e iniziano i contatti con i francesi, ndr), è stato il tentativo di far rinascere l’industria aeronautica tedesca e al tempo stesso costringere le imprese tedesche di questo settore a fondersi per fare concorrenza agli americani di Boeing e non tra di loro. Un’idea che li per lì ha funzionato (nel 1970 si costituiva il consorzio franco tedesca Airbus, nel quale nel 1971 entrano gli spagnoli, e nel 1979 i britannici, ndr). Poi però la politica ci mette lo zampino e le cose cominciano ad andare male. Ed è solo grazie al presidente esecutivo Tom Enders che il gruppo è riuscito a liberarsi dall’abbraccio mortale dello stato e a rimettere in piedi una proficua cooperazione tra tedeschi, francesi e spagnoli”.
Infince c’è il commento del corrispondente della Frankfurter Allgemeine a Shanghai, Hendrik Ankenbrand. Secondo il quale, uno dei grandi errori commessi dai tedeschi è stato quello di trattare con sufficienza i cinesi. Solo che questi nel frattempo hanno più che colmato il gap con le aziende europee del settore: “La distanza tra Pechino e la metropoli economica Shanghai è di 1318 chilometri. Da settimana scorsa, questa tratta viene coperta a 350 km/h in 4 ore e 28 minuti. L’ICE tedesco arriva al massimo a 330 km/h, ma normalmente viaggia al di sotto di questa velocità. ‘Made in China 2025’ si chiama il piano di sviluppo che il governo di Pechino ha presentato nel 2015, l’anno in cui la Deutsche Bahn sondava il terreno per una possibile cooperazione con i cinesi. (…) I nuovi treni made in China dovrebbero raggiungere addirittura i 400 km/h e arrivare sul mercato nel giro dei prossimi tre anni. (…) Inoltre, grazie al sostengo dello stato, i produttori cinesi offrono condizioni di pagamento rateizzato assai convenienti”.
E poco importa – al governo cinese, così come ai potenziali acquirenti – se questi aiuti di stato contravvengono alle regole della concorrenza. “Tutto questo costringerà Siemens e Alstom a rivedere spese e produttività” concludeva Ankenbrand, “per quanto, anche uniti difficilmente giro d’affari franco tedesco riuscirà a essere superiore alla metà di quello del colosso statale cinese. (…) La critica di aver troppo a lungo guardato con sufficienza i cinesi è dunque più che giustificata. Ma anche la Cina deve guardarsi dal non fare lo stesso errore”.