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Come in Germania si mugugna per la carenza di campioni nazionali dell’economia

Deutsche Bank, bund

L’economia tedesca continua ad andare a gonfie vele. La disoccupazione al 5,6 per cento è ai minimi storici. Va tutto benissimo, non fosse che: “Alla Germania mancano le vere stelle dell’economia mondiale” si legge nel numero di questa settimana dello Spiegel. “Nella seria A dei campioni globali siamo oramai la retroguardia”. Ai primi posti tra le imprese con il maggiore giro d’affari figurano Google, Apple, Microsoft, Amazon, seguiti dai cinesi Tencent e Alibaba; al 17esimo posto ci sono gli svizzeri di Nestlé e solo al 56esimo posto il produttore tedesco di software SAP.

Il motivo che ha spinto a guardare più da vicino il panorama industriale tedesco è stato l’annuncio fatto nella seconda metà di agosto da parte della tedesca Thyssen-Krupp e dell’indiana Tata, di fondere i propri siti siderurgici in Europa, mantenendo ognuno il 50 per cento delle quote. Una notizia buona, almeno per il vecchio continente nel suo insieme, si spera. Da questa unione – che avrà sede ad Amsterdam – dovrebbe infatti nascere il secondo gruppo siderurgico europeo, dopo Arcelor Mittal, scriveva il quotidiano Handelsblatt all’indomani dell’annuncio della fusione tedesco-indiana. Meno buona si rivelerà probabilmente questa unione per i lavoratori. Nell’ottica di sfruttare le sinergie esistenti e di un taglio di costi tra i 400 e i 600 milioni all’anno, è prevista anche una graduale riduzione di complessi 4 mila posti di lavoro, che interesserà sia il settore produttivo che quello amministrativo.

“Può anche essere che questo accordo sia la strada migliore per la sopravvivenza di Thyssen Krupp, ma non lo è certo per l’economia tedesca” osserva Alexander Jung autore dell’articolo dello Spiegel. “Non lo è perché la Germania perde in questo modo un altro global player”. Tra le cento imprese che vantano il giro di affari più consistenti, oggi ce ne sono solo più otto tedesche. Dodici anni fa erano 12, vent’anni fa se ne contavano 14. “RWE, BASF, Metro e ora Thyssen Krupp, tutte passate in mano straniera”.

E non va meglio per quel che riguarda le quotazioni in Borsa. Anche qui il numero di quelle tedesche che figurano tra le prime cento si è ridotto a quattro, mentre gli Usa ne contano 55 e quelle cinesi già 11.

Jung cita tra gli esempi paradigmatici per questo quadro a tinte fosche, la Deutsche Bank. Ancora alla fine degli anni Novanta l’istituto era – se commisurata ai dati di bilancio – il numero uno nel mondo finanziario, oggi non detiene nemmeno più il primo posto a livello europeo. Bertelsmann, un tempo considerato uno dei più grandi gruppi al mondo, è nel frattempo uscito dalla graduatoria delle prime dieci. Stesso discorso per Hochtief e Philipp Holzmann un tempo giganti dell’industria edile di fama mondiale. Hochtief appartiene oggi agli spagnoli, mentre Philip Holzmann ha avviato nel 2002 una procedura di insolvenza, e anche se è tutt’ora quotata in Borsa, i tempi di gloria appartengono alla storia. E vista la sorte di queste imprese considerate ancora non molti anni fa pilastri dell’economia tedesca, non è un’eresia pensare che anche storici marchi dell’industria automobilistica tedesca –Volkswagen, Daimler o BMW – possano un giorno finire in mano straniera.

Certo, ammette Jung, le dimensioni non sono tutto. E la Germania giustamente è sempre stata orgogliosa del suo tessuto produttivo fatto principalmente da imprese medio-piccole, capaci di riempire nicchie ad alta specializzazione. Il fatto è che oggi non basta più questo zoccolo duro. Non basta perché la concorrenza è globale e grandi dimensioni permettano di sfruttare appieno le economie di scala. Non va inoltre dimenticato l’effetto traino che questi grandi attori esercitano su altre imprese. Sono loro a dettare le condizioni. “Ragionando nell’ottica dell’industria 4.0” spiega Jung, “un’impresa delle dimensioni di Siemens può aggregare sulla sua piattaforma imprese di dimensioni più contenute. E più saranno, maggiore sarà l’utilità che ne trarrà ognuna singolarmente”.

Infine, solo i grandi gruppi sono in grado di operare una diversificazione a 360 gradi, come dimostrano il gigante Usa Amazon, il quale oltre a essere la più grande impresa al mondo nell’ e-commerce è oggi attivo anche nel cloudservice, nella logistica e nell’industria cinematografica. Il raggio d’azione del gruppo IT cinese Tencent va, invece, dal settore fieristico a quello della musica, dall’informazione, ai giochi, ai servizi finanziari.

Secondo Jung la recente fusione tra i tedeschi di Siemens e i francesi di Alstom è un passo nella giusta direzione per non farsi completamente superare dai cinese, senza per questo mettere a repentaglio (almeno per il momento) posti di lavoro. “E’ vero che si tratta di un accordo nato dalla necessità, che però potrebbe (dovrebbe) fare scuola. Per esempio nel settore automobilistico. Chissà magari un giorno si metteranno insieme le industrie automobilistiche tedesche o addirittura europee per costruire un’unica fabbrica di batterie. Una simile strategia potrebbe arrestare il lento declassamento degli ex campioni, se non tedeschi, perlomeno europei”.



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