Inizierò con un doveroso mea culpa. Così, tanto per prevenire le prevedibili e giuste osservazioni che altrimenti mi pioverebbero addosso dai miei (più o meno) “amici” di Facebook. Perché sì, è vero, lo ammetto: c’ero anch’io, ieri, in quello strano luogo virtuale affollato di volti sorridenti e di parole d’odio, di dolci gattini e di terribili insulti. C’ero anch’io a cazzeggiare o a scrivere seriosamente in merito a cose come “autonomia”, “surplus fiscale”, oppure di quell’egoismo terragno che quando deve farsi accettare si mette il vestito della festa e tendendoti la mano si presenta con un compìto: “Piacere, Federalismo”. Tutte cose che soltanto ieri mi sembravano importanti e che importanti sembrano oggi ai tanti che godono, così come a quelli che rosicano.
Il fatto è che mi ero distratto, come può capitare quando magari ti lasci appassionare dal tema del giorno, quello “gonfiato” dai media, invasivo perché ti entra in casa anche se non lo hai invitato, dal momento che a lui basta il click di un telecomando per stravaccarsi sul divano accanto a te. Ed è allora, volente o nolente, che ci caschi dentro, facendoti prendere da un’appartenenza politica oppure da un tifo sportivo, da uno ius sanguinis o semplicemente dal tuo gusto inveterato per la vis polemica. Quello strano luogo virtuale – il libro delle facce – te ne dà licenza, lo hanno inventato per quello, e non a caso te l’hanno messo a disposizione gratis, o quantomeno così ti fanno credere. E quando ti ci trovi dentro sta soltanto a te, a chi sei davvero, la scelta se usare il fioretto o la mannaia, le frasi colte o i borgorigmi intestinali, lo “scusami tanto se non sono d’accordo con te…” o il “brutto figlio di…”.
Poi, però, già soltanto il giorno dopo, può capitarti la magia di riprenderti, di disintossicarti, di fare un salutare brainwashing scrollando via dalla testa quel fastidioso tintinnio di bulloni, viti e rondelle arrugginite, spaiate e quindi inutili, unico possibile lascito di quelle minchiate per le quali magari te l’eri presa tanto a cuore. Ti succede quando, senza nemmeno pensarci, ti ritrovi in un luogo magari crudele, ma vivaddio reale. Quando insomma riatterri sulla vita vera. Quando recuperi l’intelligenza necessaria per ritornare a vedere soltanto le cose che per davvero contano e reimpari a collocarle in ordine di importanza lungo i gradini di un’ideale scala dei valori.
Mi succede con frequenza quasi ormai quotidiana, da anni, di frequentare uno di questi luoghi reali. Senz’altro uno dei più dolorosamente tali e al tempo stesso più straordinariamente ricchi di umanità: la sala d’attesa di un day hospital oncologico. Io ho il solo merito, certamente non mio, di poterlo fare da individuo sano. Ma a distanza di anni dalla prima volta direi che ho soprattutto il dono di poter incontrare, di parlare e di condividere pensieri con chi ingiustamente soffre.
Così ti accorgi che anche le minuscole cose che tu puoi dare a chi sta invece combattendo il più grande dei mali – puoi dare loro l’ascolto, le tue parole, perfino le chiacchiere su cose banali come una ricetta o un brano musicale – vengono accolte come preziosissimi doni. E come doni, ogni volta, ti ritornano. Succede insomma che pensando a te, mentre parli con loro, sforzandoti a volte di reggerne senza imbarazzo gli sguardi, ti ritrovi a pensare alle curve scivolose, ai dossi improvvisi e ai bivi mal segnalati che qualcuno di noi può incontrare nel suo viaggio terreno. Lo stesso viaggio che invece per altri, per i più, e speri anche per te stesso, è ancora un rettilineo a doppia corsia, forse noioso, ma in apparenza privo di insidie. Così la prima domanda che fai a te stesso, sessantacinquenne senza seri acciacchi, mentre parli con una ragazza di vent’anni che ti sorride da sotto un fazzoletto annodato in modo vezzoso, non può che essere una sola: perché lei e non io, che il mio bel pezzo di strada l’ho già fatto? Momenti in cui ti senti ridicolo pensando al tempo e alle energie che hai buttato via per le suddette minchiate, quelle che ti portano a voler essere ogni giorno Parte, invece che il Tutto. L’Io, anziché il Noi. Facendoti pensare sempre e soltanto al Mio, anziché al Nostro.
E per che cosa, poi? Per i schei in più, piuttosto che per una tassa in meno? Per le strisce diversamente colorate di una maglia o per un capataz politico da osannare e dal quale attendere di sapere come la devi pensare? Per il centimetrico e litigioso confine disegnato su una mappa condominiale o per quelli di inedite appartenenze da disegnare ex novo sulla carta di un Paese tanto piccolo eppure abbastanza idiota per volersi dividere nelle tessere di un puzzle?
Anche oggi, pensando alle nostre quotidiane miserie di uomini apparentemente integri (quantomeno “fuori”), valutavo le “ricchezze” interiori di queste persone sofferenti con il cerotto sul braccio, con l’asta della flebo da spingere, o con il port-a-catch sulla vena succlavia appena intuibile dal leggero rigonfiamento sotto la maglietta. Incredibilmente quasi tutti – uomini e donne, giovani o anziani – mi insegnano ogni volta che cosa siano la forza di combattere, la volontà di credere, il diritto-dovere di sperare e quel coraggio di sorridere per nascondere una smorfia di dolore. Ma soprattutto, in tempi decerebrati come gli attuali, dove appunto quel volersi dividere sembra ormai diventato una nuova disciplina sportiva che pretende i suoi campioni da acclamare, questi straordinari portatori sani di saggezza mi insegnano il raro e prezioso dono di saper e voler essere gruppo: si sostengono, si aiutano, gioiscono di una vittoria altrui stando attenti a non guastarla mostrando la legittima e umanissima amarezza per una sconfitta loro. Arrivano da tutta Italia, da Nord a Sud, e anche dall’estero, non si erano mai conosciuti prima, eppure sono da subito un meraviglioso e sinfonico Tutto. Senza “Io”, senza “Mio”, soltanto con il “Noi”.