Neppure nel 2020 raggiungeremo il pareggio strutturale del bilancio, che pure era stato previsto per l’anno in corso dal Def 2015, il primo ad essere firmato da Pier Carlo Padoan come ministro dell’Economia del governo di Matteo Renzi. Nell’Aggiornamento al Def 2017, varato lo scorso 29 settembre dallo stesso Padoan, questo obiettivo non viene più nemmeno citato: ci si avvicina senza mai raggiungerlo, come nel paradosso logico di Achille che rincorre invano la tartaruga. Rispetto al Def di aprile, la correzione strutturale da apportare con il bilancio 2018 è passata dallo 0,6% allo 0,3% del pil. Il deficit aumenta, invece, dall’1,2% all’1,6%.
E’ la prudenza che muove ormai all’unisono tutti, i governi, la Commissione europea e la Bce, dopo gli anni in cui la fretta ed il rigore furono pessimi consiglieri: gli effetti economici, sociali e politici che ne sono derivati minano ancora le fondamenta dell’Unione. Gli aggiustamenti fiscali si fanno minimi, quasi impercettibili: cercano di conciliare crescita e risanamento finanziario in un contesto che si fa invece sempre più complesso. Si vive nella bolla di liquidità creata dalle banche centrali.
Il disegno di legge di bilancio per il 2018, che sarà deliberato dal Consiglio dei Ministri la prossima settimana, concluderà il complesso delle decisioni di finanza pubblica assunte dal Parlamento eletto nel 2013, snodatesi attraverso i governi presieduti da Enrico Letta, Renzi ed ora da Paolo Gentiloni. Tutto si proietta in un futuro indefinibile: con inusitata leggerezza, nell’Aggiornamento del Def 2017 si afferma tra l’altro che “ai fini della corretta impostazione delle politiche macroeconomiche, nell’area valutaria comune è largamente insufficiente affidarsi alla semplice sommatoria delle scelte di politica di bilancio dei Paesi membri, che rischia di risultare pro ciclica e di alimentare squilibri; è necessario assicurare l’efficace coordinamento delle politiche di bilancio, da affidare eventualmente a un Ministro delle Finanze europeo”. L’intreccio tra gli equilibri dei bilanci pubblici e le architetture istituzionali europee è tale per cui anche le decisioni di più straordinaria incidenza sul sistema costituzionale e democratico vengono date quasi per scontate. Sono inezie, un obiter dictum. Basta scriverne sui giornali, riportarle per inciso in un documento ufficiale, ed il gioco è fatto.
Nel frattempo, diventano evanescenti le decisioni fondamentali già assunte, come il Fiscal Compact adottato con un Trattato internazionale ed addirittura modificando la Costituzione. L’impegno dell’Italia di pervenire al pareggio strutturale del bilancio già nel 2014, richiesto anche dai governatori della Bce e della Banca d’Italia Jean-Claude Trichet e Mario Draghi nella famosa lettera del 5 agosto 2011, è stato rinviato anno dopo anno.
Molto è cambiato da quando tutti erano a favore del rigore senza discussioni. Il mondo intero è irriconoscibile: nel 2014, il barile di petrolio era quotato a 99 dollari mentre il cambio con l’euro stava a 1,32. Nel 2017, e già da un bel po’, il barile è sceso a 57,4 dollari, mentre il cambio è crollato ad 1,07. Draghi annunciò il Qe solo il 22 gennaio 2015, con effetti dal marzo successivo. Doveva durare fino al settembre 2016, al ritmo di 60 miliardi di euro al mese, con l’obiettivo di riportare l’inflazione vicino al 2%. Gli acquisti di titoli pubblici da parte della Bce (PSPP) non sono mai terminati, e per un certo periodo furono ad aumentati ad 80 miliardi mensili: a settembre scorso, i titoli ammontavano a 1.748 miliardi di euro. Il totale delle acquisizioni, considerando anche i bond privati (CSPP), è di 2.118 miliardi di euro: siamo al livello del debito pubblico italiano, accumulato in poco più di due anni e mezzo. Una immensità. Chi l’avesse auspicato, non certo previsto, nel 2012, ai tempi del Salva Italia di Mario Monti, sarebbe stato preso per pazzo.
Il bilancio italiano ha significativamente beneficiato del Qe. Nonostante l’aumento dello stock del debito, passato dai 2.070 miliardi di euro di fine 2013 ai 2.279 miliardi di agosto scorso, l’onere per interessi si è ridotto dal 4,1% del pil nel 2015 al 3,8% di quest’anno. Scenderà al 3,6% del 2018 ed al 3,5% nei due anni successivi. Se il vantaggio del Qe è quantificabile in circa mezzo punto di pil annuo dal punto di vista del risparmio contabile, il suo impatto in termini di alleggerimento delle tensioni sugli spread è stato enorme.
L’enorme liquidità immessa dalla Bce, insieme al rallentamento delle politiche di austerità, ha evitato che si avvitassero i processi di recessione e di deflazione registrati a partire dall’estate del 2011: il pil reale dell’Eurozona era diminuito dello 0,9% nel 2012 ed ancora dello 0,2% nel 2013; l’inflazione era crollata dal +2,7% del 2011 al +0,4% del 2014, e ancora giù fino allo 0,03% del 2015. La deflazione dello 0,2% registrata nel dicembre 2014 fece rompere ogni indugio: liquidità a manetta da parte della Bce, flessibilità nella applicazione del Fiscal Compact da parte della Commissione europea.
E’ in questa logica che va letta la manovra che il governo Gentiloni si accinge a varare, in un contesto di crescita migliore rispetto a quanto previsto dallo stesso Def ad aprile scorso: nel quadro programmatico aggiornato, il pil crescerà stabilmente dell’1,5% annuo dal 2017 al 2020. Il deflatore del pil dovrebbe aumentare anch’esso, passando dallo 0,6% di quest’anno al 2,1% del 2020. Il picco del rapporto debito/pil sarebbe invece già alle nostre spalle, con il 132% toccato nel 2016. La maggiore crescita rispetto alle previsioni di aprile farà scendere il rapporto del 2017 al 131,6%. Si arriverà al 123,9% del pil nel 2020. Maggiore crescita e più inflazione determinerebbero il raggiungimento degli obiettivi di risanamento da cui ci si è allontanati negli anni passati, quando il rigore fiscale portò al crollo del pil e dei prezzi, con un aumento esponenziale della disoccupazione. Se si vanno a controllare i fattori che determinano la crescita del pil, il quadro programmatico dell’Aggiornamento del Def 2017 la attribuisce per intero alla maggiore domanda interna. Il contributo netto dell’export sarebbe pari a zero.
Mentre è in arrivo l’onda lunga della crisi. quella delle sofferenze bancarie di cui abbiamo visto solo la complessa fase di cessione agli operatori specializzati che ora dovranno procedere all’incasso, ci si barcamena. Si anticipano gli investimenti delle imprese per ravvivare l’economia, si accelerano gli incassi tributari rottamando le cartelle tributarie e prossimamente anche quelli che deriverebbero dalla definizione delle liti pendenti. Si concede di anticipare la pensione contraendo un mutuo bancario, con le rate prelevate sui ratei per vent’anni, mentre si scopre che la scarsa dinamica dell’occupazione e soprattutto quella delle retribuzioni farà crescere la gobba degli oneri pensionistici prevista tra vent’anni.
Nel 2018, il deficit dovrebbe essere pari all’1,6% del pil: crescerà quindi, ancora una volta, più di quest’ultimo, che salirebbe dell’1,5%. Solo l’inflazione farà da solvente nel rapporto debito/pil. Intanto, gli interessi sul debito ci costeranno il 3,6% del prodotto, invece del 3,8% di quest’anno. Il saldo primario crescerà: sarà pari al 2% del pil rispetto all’1,7% del 2017, e rappresenterà la solita trasfusione di risorse dal prelievo fiscale al sistema finanziario.
Nel 2013, rispetto al pil, l’Italia aveva un deficit del 2,9%, un avanzo primario dell’1,9% e pagava il 4,8% di interessi. Nel 2018, avrà un deficit dell’1,6%, un avanzo primario del 2% e pagherà il 3,6% di interessi. A fronte di interessi calati dell’1,2%, in cinque anni il deficit è sceso dell’1,3% mentre il saldo primario è aumentato solo dello 0,1%: questo è il vero sforzo fiscale. Nel 2013, il pil cadde dell’1,7% dopo essere crollato del 2,8% nell’anno precedente. Sono stati gli shock fiscali violentissimi di quegli anni, a partire dal 2008, a sconvolgere la nostra economia. Furono decisi dalla Commissione europea e approvati da quelle stesse banche centrali che ora si attribuiscono il merito della ripresa dell’occupazione.
I debiti sono aumentati a dismisura per colpa della crisi, ed ai governi spetta rammendare, col poco filo che hanno, uno strappo ancora lunghissimo. Mentre la luce di emergenza, accesa dalle banche centrali, sta già per spegnersi.