Il catalanismo (da non confondere con il nazionalismo e neppure con l’indipendentismo) ha una lunga storia. Dalla seconda metà dell’Ottocento fu rivendicazione regionalista di un’identità culturale. Con la sconfitta spagnola nella guerra Ispano-americana del 1898, si trasformò in un vero movimento politico che chiese autonomia sul piano amministrativo in nome del “fattore differenziale”. Madrid respinse la richiesta e la dittatura di Primo de Rivera dal 1923 represse il movimento, che ciononostante si estese sotto traccia. Con l’avvento della Repubblica, la Catalogna ebbe, nel 1932, il suo primo Statuto e governo autonomo in una Spagna finalmente decentrata. Anche per questo i militari si sollevarono provocando quella guerra civile che finì spazzando via, con la democrazia, l’autogoverno catalano (e basco). Il rigido centralismo franchista volle soffocare le diversità culturali e linguistiche, imponendo una spagnolizzazione forzata. Non a caso catalani e baschi furono tra i vivaci oppositori al regime. Con la fine della dittatura e la transizione democratica le rivendicazioni del nazionalismo catalano trovarono in gran parte soddisfazione nello Stato delle Autonomie, che trasferì ampie competenze alle Comunità Autonome. Nei decenni successivi la Spagna ha vissuto della dialettica tra governo centrale e Autonomie, con momenti di tensione in materia fiscale, linguistica e di competenze, ma senza che il conflitto normativo mettesse in discussione l’architettura democratica disegnata dalla Costituzione del 1978.
Poi vennero i governi del Partito popolare (Pp) di Aznar. Privi di maggioranza dal 1996 al 2000, furono accondiscendenti con i nazionalismi catalano e basco, di cui necessitavano il voto. Dotati di maggioranza assoluta dal 2000 al 2004, Aznar volle considerare chiusi i trasferimenti di competenze e rilanciò il nazionalismo spagnolista. La vittoria dei socialisti di Rodríguez Zapatero e i suoi governi (2004-2011) riaprirono il dialogo, facilitato dalla presenza alla guida della Generalitat del socialista Maragall dal 2003. Il Parlamento catalano elaborò e approvò allora (con il solo voto contrario del Pp) un nuovo progetto di Statuto che, dopo un aspro dibattito (in gran parte focalizzato sulla definizione della Catalogna come “nazione” che figurava in esso), fu approvato di stretta misura dal Parlamento spagnolo e poi ratificato da un referendum in Catalogna (2006). Ma il Pp impugnò la metà circa dei suoi articoli e ricorse al Tribunale Costituzionale che nel giugno del 2010 stabilì l’incostituzionalità di 14 di essi.
Si è soliti far coincidere la svolta del nazionalismo catalano e l’avvio del proces indipendentista con la sentenza del Tribunale Costituzionale. La periodizzazione acquista valore in considerazione di altri fattori. In primo luogo, l’impatto devastante della crisi economica del 2007-2008. Poi, l’evoluzione del quadro politico catalano, con la fine dei governi tripartito catalanista e di sinistra (Socialisti, Erc e Sinistra verde e post-comunisti) e il ritorno, nel 2010, alla guida della Generalitat di CiU con Artur Mas, a seguito di elezioni che non gli diedero la maggioranza per governare. Di qui due elezioni anticipate: nel 2012, quando CiU perse 12 seggi, e nel 2015, quando li riconquistò dando vita a un governo indipendentista con la Cup (un movimento nazionalista di sinistra radicale). In terzo luogo, le vicende politiche spagnole con il tracollo socialista del 2011, l’ascesa al governo di Rajoy, il suo rifiuto di aprire un tavolo con il nazionalismo catalano, le elezioni generali del 2015 e 2016, che hanno segnato la crisi del sistema dei partiti spagnoli con l’irruzione di due nuovi soggetti politici (Podemos y Ciudadanos) e che si è tamponata grazie all’astensione socialista con la formazione di un governo di minoranza presieduto ancora da Rajoy. In quarto luogo, gli scandali che hanno investito sia il Pp, sia il partito di Artur Mas e Puigdemont, rispetto ai quali la questione indipendentista rappresenta un diversivo politicamente utile a entrambi.
È in questo contesto che il Parlamento catalano il 6 settembre ha indetto per decreto il referendum dell’1 ottobre e, con analoga forzatura del regolamento parlamentare, escludendo cioè emendamenti e dibattito, la Legge del referendum che all’art. 4, comma 4 fissa la legittimità della secessione qualora una maggioranza semplice di elettori rispondesse affermativamente alla domanda “Vuoi che la Catalogna diventi uno Stato indipendente in forma di Repubblica?”. L’8 settembre il Tribunale Costituzionale ha sospeso cautelativamente la Legge sul referendum. Su iniziativa della magistratura, la Guardia Civil ha proceduto a perquisizioni, arresti e al sequestro delle schede referendarie. Rajoy è apparso la sera del 20 settembre davanti alle telecamere per ribadire che il referendum non si svolgerà. Il presidente della Generalitat, Puigdemont, ha risposto assicurando il suo svolgimento. Il 22 settembre il governo ha assunto il comando delle forze di polizia catalane (Mossos d’esquadra). E le notizie si susseguono a ritmo serrato.
Partendo dalla storia e dalla cronaca degli ultimi giorni, è possibile avanzare alcune valutazioni.
Il nazionalismo catalano è un movimento complesso che alberga al suo interno anime diverse, moderate e radicali, laiche e cattoliche. La storia insegna che si è radicalizzato ogni qualvolta il governo di Madrid si è opposto alle sue richieste o ha cercato di reprimerlo. È un movimento democratico ed europeista che dal 2010 ha conosciuto una torsione populista e indipendentista, fino a quel momento opzione largamente minoritaria. Anche dopo il 2010 l’indipendentismo non ha mai ottenuto la maggioranza nel voto dei catalani, mentre nel 2015 l’ha conquistata in termini di seggi, fatto che ha consentito la formazione di un governo di coalizione che non ha altri punti in comune al di fuori del progetto indipendentista. La decisione di indire il referendum, e le modalità con le quali vi si è giunti, hanno inferto un grave vulnus alla Costituzione, intollerabile in uno Stato di diritto. Ma da qualunque punto la si guardi, non si può non riconoscere che la richiesta d’indipendenza costituisce un problema politico, da affrontare politicamente. Così fece la Corte Suprema del Canada nel 1998 che, di fronte al secessionismo del nazionalismo francofono, emise una sentenza nella quale si affermava che il Quebec non avrebbe potuto, anche in presenza di un chiaro risultato referendario, procedere alla secessione, ma allo stesso tempo che il governo non poteva rimanere indifferente davanti alla chiara espressione di una volontà secessionista. Da qui la necessità di avviare negoziati che ne fissassero le condizioni. Alla sentenza seguì una legge del Parlamento (Clarity Act) che stabilì di affidare alla Camera dei Comuni la determinazione dei quorum (di partecipazione e di voto) necessari a rendere valido il risultato del referendum. Forse non è un caso che laddove si è votato, più volte nel Quebec e più recentemente in Scozia, non sia stato il voto secessionista a prevalere.
L’ostinazione con cui Rajoy ha rifiutato ogni negoziato riflette una peculiare e diffusa cultura politica nella quale la mediazione (intesa nella versione nobile, di dialogo e approdo a soluzioni attraverso compromessi) non trova tradizionalmente posto. La recente politica spagnola offre al riguardo vari esempi: il rifiuto di avvicinare ai Paesi baschi i detenuti dell’Eta e di costruire percorsi per il loro reinserimento nella vita civile anche dopo la sconfitta dell’organizzazione terroristica; il fatto che non si sia mai approdati a governi di coalizione neppure di fronte alla crisi economica e dopo due elezioni che non hanno dato a nessun partito la maggioranza per governare; il «no è no» del segretario del Psoe, Pedro Sánchez, all’astensione sul governo Rajoy. Una rigidità di principi a cui non sempre corrisponde analoga fermezza sul piano etico, come i casi di corruzione hanno abbondantemente dimostrato.
Le forzature della legalità democratica da parte dell’indipendentismo e la rigidità di Madrid hanno confezionato una situazione che nessuno sa come andrà a finire. Quel che è sicuro è che non finirà l’1 ottobre e che dopo sarà peggio.
(estratto di un articolo pubblicato sul sito de Il Mulino)