“Sembra che il ceto dirigente catalano non abbia studiato bene la storia della Spagna o peggio abbia manipolato alcuni fatti del passato per legittimare la richiesta d’indipendenza e coprire il proprio fallimento politico, economico e finanziario”. Lo dice a Formiche.net il professor Gaetano Sabatini, ordinario di Storia economica che per tanti anni ha insegnato Storia della Spagna all’Università Roma Tre. Sabatini sta analizzando gli argomenti a favore dell’indipendenza della Catalogna dalla Spagna, o almeno alcuni di quelli usati dal ceto dirigente catalano per aizzare la folla contro il governo di Madrid.
“Partiamo dal fatto che in tutte le consultazioni che si sono tenute fino adesso, sia quelle politiche sia il referendum consultivo di due anni fa, fino ad arrivare all’ultimo referendum, non vi sono mai state prove, sia per la scarsa affluenza sia per i risultati, della presenza di un sentimento maggioritario in favore dell’indipendenza dei catalani”, spiega Sabatini. Dunque, le elezioni del prossimo 21 dicembre in Catalogna saranno una prova importante per capire se veramente la maggioranza dei catalani è a favore dell’indipendenza o no, oltre che per decidere il destino del presidente della Catalogna, Carles Puigdemont (nella foto), che rischia trent’anni di carcere.
“La gestione pacifica delle trattative per l’indipendenza nel contesto della Spagna democratica – spiega lo storico – era stata una problematica affrontata con più inclinazione al compromesso dal governo Zapatero, che era riuscito ad arrivare non senza difficoltà all’approvazione dello statuto dell’indipendenza catalana del 2006, annullato poi nel 2010 con il ricorso del Partito popolare presentato alla Corte costituzionale”. “Tuttavia, da quando è al governo, Mariano Rajoy non ha cercato di risolvere la situazione attraverso trattative pacifiche ed è forse anche colpa di questa mancanza di volontà di affrontare la questione da parte del governo centrale se la situazione è degenerata”.
Premesso dunque che da una parte anche il governo centrale ha le sue responsabilità e dall’altra a volere l’indipendenza non è la maggioranza dei catalani, Sabatini si concentra sulle falsità storiche utilizzate in modo pretestuoso dal ceto dirigente catalano per scatenare la rabbia della piazza contro il governo di Madrid. “Una delle grandi menzogne associate stabilmente alla vicenda dell’indipendenza catalana è costituita dalle responsabilità che avrebbe avuto Filippo V di Borbone in occasione della guerra di successione spagnola nel cancellare le autonomie catalane”, spiega Sabatini. Questa è, infatti, una duplice menzogna o almeno un duplice errore storico.
“Innanzitutto la guerra di successione spagnola (1701-1714), come la parola stessa dice, è una guerra dinastica, e la logica delle guerre dinastiche non ha nulla a che vedere con le pretese d’indipendenza della Catalogna”. Filippo V di Borbone, ricorda il Professore, “abolisce i privilegi della Catalogna come quelli di tutti gli altri territori della corona spagnola perché porta in Spagna l’accentramento amministrativo tipico della Francia già dei Borbone”. Inoltre, aggiunge, “abolisce tutte le dogane interne istituendo invece un protezionismo verso l’estero che è la grande chance per l’industria catalana, soprattutto quella della produzione dei tessuti, di diffondersi in tutto il paese”. Dunque, in realtà, creando un grande mercato nazionale senza barriere Filippo V di Borbone mise le premesse per la crescita e lo sviluppo catalano dei successivi 150 anni.
Il secondo punto riguarda lo sviluppo industriale della Catalogna nel corso del XIX secolo, che, secondo il professore, “ha molto a che vedere con la nascita del nazionalismo catalano e dell’indipendentismo”. Quando arriva la rivoluzione industriale, infatti, una delle strade più facili da percorrere per la concorrenza delle merci prodotte è quella di cercare di ridurre il più possibile il costo del lavoro. “Il nazionalismo – spiega Sabatini – si accompagna spesso ai processi d’industrializzazione perché esaltando l’identità nazionale, si crea un’ottima premessa per pagare meno i lavoratori che non rispettano il requisito d’identità nazionale o quella del territorio che si sta industrializzando”. In quest’ottica nasce la lotta per l’indipendenza di questa regione.
“All’indomani dell’adozione della costituzione democratica del 1978 e per più di trent’anni – racconta Sabatini – in Catalogna governa un partito d’ispirazione autonomista, ma di posizioni liberal-conservatrici, chiamato Convergenza e Unione”. Questo partito entra in crisi all’inizio degli anni Duemila e perde le elezioni nel 2003 a favore di un tripartito, che univa il Partito Socialista di Catalogna alla sinistra più radicale, spingendo verso l’indipendenza. Così, alle elezioni successive la moderazione di Convergenza e Unione lascia il passo a una più radicale richiesta d’indipendenza nella logica delle elezioni.
Il professore fa notare come il problema fondamentale del ceto dirigente catalano sia stato quello di essere fortemente segnato da episodi di corruzione e più in generale, grazie ai margini di discrezionalità previsti dall’autonomia, dall’aver gestito in modo molto disinvolto la spesa pubblica, fino a raggiungere un livello di indebitamento enorme rispetto al territorio della Catalogna. “La conclamata scelta indipendentista di questo gruppo dirigente è servita in questi ultimi anni a coprire agli occhi degli elettori il sostanziale fallimento di una strategia politica che, nonostante la grande vitalità dell’economia catalana, ha portato alla formazione di un debito pubblico ormai ingestibile”, spiega Sabatini. “Tutto questo sebbene gli accordi tra il governo centrale e la Catalogna prevedano che una serie d’importanti voci di spesa – e prima tra tutte le infrastrutture – siano sempre rimaste a carico dello Stato centrale”.
Così, dice lo storico, “a fronte della palese inadeguatezza di questo gruppo dirigente, soprattutto a partire dalla crisi economica del 2008, il crescente malcontento degli strati della popolazione meno abbienti, più colpiti dalla crisi e più marginalizzati dalla disoccupazione – che in tutta la Spagna ha raggiunto e oltrepassato il 20% della popolazione attiva – è stato canalizzato nel movimento indipendentista, attribuendo tutte le responsabilità e le colpe a un presunto autoritarismo centralista di Madrid, cosa che per altro è assolutamente falsa, stante il contenuto sostanzialmente federale della costituzione del 1978”.
Alla luce di questa lettura storica degli eventi è chiaro che il 21 dicembre i catalani saranno chiamati ad esprimersi non solo sulle semplici elezioni per il rinnovo del Parlament e della Generalitat, si tratterà in primo luogo di formulare un giudizio politico sulla classe dirigente catalana delle ultime decadi e certamente di quest’ultima convulsa fase; “l’eventuale opzione per l’indipendenza sarà solo una conseguenza di questo giudizio”, conclude Sabatini.
Nessuna delle forze politiche che si misureranno nei prossimi due mesi di campagna elettorale potrà ignorare le decine di migliaia di cittadini spagnoli e catalani (e quindi ancora spagnoli), che poche settimane fa hanno occupato le piazze del paese vestiti di bianco e con cartelli e bandiere dello stesso colore, reclamando a gran voce quello che sino ad ora, con sfumature diverse, i ceti politici di Barcellona e Madrid sono stati incapaci di realizzare: un dialogo pacato, costruttivo, concreto.
Dunque, non resta che aspettare il 21 dicembre ricordandoci che non è colpa né di Filippo V di Borbone né del governo centrale se il ceto dirigente catalano ha fallito nella gestione delle proprie finanze e, soprattutto, che quelli che vogliono l’indipendenza non sono nemmeno la maggioranza dei catalani.