È passata piuttosto sottotraccia una notizia importante: la Commissione libertà civili (LIBE) del Parlamento Europeo ha approvato a larga maggioranza una significativa proposta di riforma del regolamento di Dublino, ossia dell’insieme di norme che regolano la ricezione comunitaria dei migranti. Una proposta che va, finalmente, nella direzione della realizzazione di un sistema europeo di asilo.
È un passo significativo, specie per il nostro Paese, anche se la decisione dovrà superare le forche caudine del Consiglio Europeo dove, siamo certi, i Paesi del gruppo di Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria) – e probabilmente non solo questi – opporranno strenua resistenza.
Di cosa stiamo parlando, in sostanza? Il trattato di Dublino regola le norme che stabiliscono quale Stato membro debba gestire la domanda di asilo avanzata da un migrante presentatosi in territorio europeo. La norma chiave, dimostratasi del tutto inadeguata rispetto all’esplosione migratoria degli ultimi anni, è quella che stabilisce che – in assenza di altri criteri – la domanda di asilo politico debba essere accolta dallo Stato in cui il richiedente mette piede per la prima volta. È evidente come ciò penalizzi oltremodo i Paesi di frontiera, in pratica Italia e Grecia. Ebbene, proprio questo controverso criterio, per la prima volta, è stato cancellato dalla votazione di venerdì 20 ottobre della LIBE, che l’ha rimpiazzato con uno più ragionevole: la domanda verrà smistata secondo un sistema di compensazioni automatiche, che mireranno a distribuire equamente l’onere tra tutti i Paesi dell’Unione. Anche se i dettagli non sono ancora chiari, questa appare come una norma di buon senso.
Se tutto ciò si realizzerà, la riforma di Dublino tornerà anche ad essere coerente con il sistema di Schengen, attualmente in chiaro contrasto con i criteri di accoglienza comunitaria. Non è un mistero, infatti, che i migranti usino Italia e Grecia spesso solo come transito, sfuggendo alle verifiche e approfittando dell’assenza di controlli alla frontiera per entrare in Stati limitrofi, nei quali fare domanda per la prima volta. Un po’ per miopia politica, un po’ per la minaccia terroristica, molto per timore delle reazioni populiste, la risposta di molti leader europei si è così focalizzata sulla sospensione di Schengen e sulla costruzione di muri e barriere, fisici e virtuali. In questo modo, si è rischiato e si rischia non solo di non risolvere il problema migratorio, ma di cancellare una conquista eccezionale della comunità europea come l’abbattimento dei confini interni.
Dunque, la recente votazione della Commissione LIBE riveste un notevole significato politico. Infatti, essa dimostra che nelle istituzioni europee comincia ad essere chiaro come la sfida migratoria non possa essere sostenuta solo da alcuni Paesi, e, soprattutto, che la solidarietà deve tradursi in atti pratici e non limitarsi a lusinghiere “pacche sulle spalle”.
Questo risultato si deve principalmente agli sforzi italiani, checché ne dicano i detrattori nazionali. Con modi e toni diversi, la posizione del nostro governo è sempre stata orientata alla necessità di condividere il peso della prima gestione dei migranti, nella consapevolezza che ciò dovesse obbligatoriamente passare attraverso la revisione del trattato di Dublino. Questa azione fu iniziata dal ministro Alfano, quando era titolare degli Interni, di concerto con il premier Renzi e con l’allora ministro degli Esteri Gentiloni, ed è stata proseguita con forza e convinzione, in ogni occasione e ad ogni tavolo negoziale, anche dall’attuale premier.
La credibilità italiana in questa materia è legata agli enormi sacrifici che il nostro Paese ha sostenuto. Dopo tanti apprezzamenti verbali, un primo segnale concreto era stato il vertice di Parigi del 28 agosto tra il presidente francese Macron, la cancelliera tedesca Merkel, i premier di Italia e Spagna, Gentiloni e Rajoy, l’Alto rappresentante della Ue Federica Mogherini, alla presenza di Libia, Niger e Ciad. E la recente dichiarazione di Jean Claude Juncker (che evidentemente rifletteva anche altre opinioni autorevoli) nel suo discorso al Parlamento europeo sullo stato dell’Unione del 13 settembre – il più importante anche formalmente -, nel quale ringraziava l’Italia per aver salvato l’onore dell’Europa sul tema dei migranti, suonava finalmente come l’apertura di una nuova linea politica.
Dovremmo tutti saper riconoscere questi sviluppi positivi. Invece, pur comprendendo la logica della campagna elettorale, spiace constatare che una persona intelligente come Silvio Berlusconi si affretta ora a darci lezioni su quello che si dovrebbe fare, spiegandoci che bisogna rivedere il trattato di Dublino (firmato nel 2003 dal governo da lui presieduto, con Roberto Maroni ministro degli Interni) e attribuire le quote ai vari Paesi (lo stiamo chiedendo da anni). Fingendo di ignorare che né lui, né il suo partito, per tacere del suo alleato Salvini – celebre a Bruxelles e Strasburgo per il suo assenteismo e per qualche insulsa piazzata – non hanno mai fatto nulla di concreto per modificare le cose. Del resto, allo stesso Salvini ha fatto molto comodo, almeno per un paio d’anni, poter gettare la croce sulle spalle del governo e, in particolare, di Angelino Alfano. Cosa che certamente non è dispiaciuta neppure allo stesso leader di Forza Italia.
Ora, finalmente, il lavoro fatto e la coerenza dimostrata sembrano invece dare i primi frutti concreti: certo, come ha affermato il premier Gentiloni, bisogna vigilare che non vengano introdotte clausole addirittura peggiorative o – aggiungiamo noi – scappatoie su misura per qualcuno.
La notizia di venerd’ scorso dà perciò fiducia e, di fatto, sembrerebbe spazzare via dal dibattito elettorale il principale argomento della destra lepenista di Salvini e Meloni, ma conoscendo i personaggi, questi cercheranno ancora una volta di coprire l’evidenza della realtà con i loro schiamazzi. Auguriamoci che chi si rifà ai valori del popolarismo europeo, almeno questa volta, non dia loro corda.