Sulla crisi catalana ancora una volta i giudizi di valore e le passioni politiche hanno annebbiato la capacità di analisi dei fatti dei nostri media tradizionali. Domenica primo ottobre veder trascinare via e manganellare gente pacifica che chiedeva solo di votare non ha migliorato l’immagine del governo di Madrid e della monarchia spagnola, suscitando una certa simpatia per la causa indipendentista – anche se numeri e gravità delle violenze appaiono oggi gonfiati, tanto che non risulta che il presidente della Generalitat Puigdemont abbia visitato qualche ferito ricoverato in ospedale (è ragionevole ritenere che lo avrebbe fatto, se ve ne fossero stati). Molte delle immagini più impressionanti girate sui social erano persino dei fake, non c’entravano niente con il referendum catalano. Ovviamente questo non significa che la Guardia Civil non abbia usato la mano pesante, ma un po’ troppo alla leggera sono volate parole come fascismo e franchismo. La reazione “sproporzionata” di Madrid, era la tesi prevalente, non ha fatto altro che compattare, ingrossare e radicalizzare il fronte indipendentista.
Tuttavia, già dall’indomani del voto e con il passare dei giorni, diventava sempre più evidente che a trovarsi in un vicolo cieco dal punto di vista politico erano proprio gli indipendentisti.
L’indipendenza dichiarata in modo ambiguo martedì pomeriggio, e subito sospesa “per qualche settimana”, non si sa quante, ne è la dimostrazione. Il tentativo di Puigdemont di apparire come l’uomo del dialogo rispedendo la palla nel campo di Rajoy rivela in realtà l’estrema debolezza e l’isolamento della leadership catalana. Senza un piano e senza sponde internazionali. La secessione non si improvvisa. Non si intravede all’orizzonte alcun dialogo con Madrid, né alcuna mediazione europea o internazionale, almeno non con una secessione in atto. Dialogo su una riforma costituzionale nel rispetto della legalità, è stata l’apertura di Rajoy nel suo discorso di mercoledì pomeriggio davanti al Congresso dei deputati. La sensazione è che il tempo non giochi a favore degli indipendentisti. Il governo di Madrid ha interpretato l’annuncio di martedì del presidente catalano come un non senso, che non merita risposte ma una richiesta di chiarimento: avete o no proclamato l’indipendenza? Sul tavolo il ricorso all’articolo 155 della costituzione spagnola, la sospensione dell’autonomia catalana, e all’articolo 116, lo stato d’emergenza, di fronte a un atto concreto di esercizio della sovranità da parte di Barcellona. Dunque il cerino, sempre più corto, resta nelle mani di Puigdemont, che dovrà decidere entro cinque giorni se e cosa rispondere a Madrid, e sopportarne le conseguenze, con il rischio che la coalizione indipendentista si sfaldi da sola sul da farsi.
Ma per inquadrare correttamente la crisi catalana occorre qualche precisazione preliminare. I catalani non possono appellarsi al diritto di autodeterminazione dei popoli, almeno non come storicamente affermato nella Carta Atlantica e nella Carta delle Nazioni Unite, dal momento che viene riconosciuto nei casi di dominazioni coloniali, invasioni e occupazioni, o di oppressione e violazione dei diritti umani. Quella spagnola è una costituzione democratica. Permette ai cittadini spagnoli (catalani compresi) di autodeterminarsi nelle forme previste dalla legge, più o meno come in tutte le democrazie occidentali. E può essere modificata secondo le procedure previste. A differenza di molte altre, è stata sottoposta a referendum popolare (e approvata dunque anche dai catalani a stragrande maggioranza).
Né la Catalogna è mai stata nella sua storia uno Stato sovrano, pur sviluppando una sua autonomia e una sua specificità culturale all’interno dell’Impero carolingio prima e sotto la Corona d’Aragona poi. Oggi i catalani godono di un’ampia autonomia che molte altre popolazioni (per esempio, i tibetani) possono solo sognare.
Ma se i cittadini catalani sono comunque scontenti della loro situazione e vogliono recedere dal contratto sociale e dal patto politico che li legano agli altri cittadini spagnoli? Pur non essendoci alcun diritto positivo alla secessione, personalmente ritengo che in linea di principio debba essere possibile. Sarebbe auspicabile che le costituzioni democratiche prevedano una procedura legale e democratica per la secessione di un territorio. Un’ipotesi potrebbe essere quella di prevedere due consultazioni referendarie a distanza di dieci o vent’anni, e una maggioranza degli aventi diritto a favore in entrambe perché si dia seguito alla separazione. Durante il periodo tra i due referendum si potrebbero aprire negoziati per una maggiore autonomia. Una simile procedura garantirebbe che la volontà di separarsi sia costante nel tempo, che un processo così complesso e costoso non sia attivato strumentalmente sull’onda dell’emotività di un momento, e i cittadini avrebbero modo di cambiare idea se soddisfatti della maggiore autonomia ottenuta. Nell’ambito di un contesto, come quello europeo, caratterizzato da una condivisione dei valori di libertà e democrazia e da una relativa integrazione economica, commerciale e culturale, per di più in un mondo sempre più globalizzato, le secessioni non dovrebbero essere vissute come un dramma. Anzi, la competizione tra modelli istituzionali ed economici (e fiscali) può solo arricchire l’Europa e il mondo occidentale, come già avvenuto in passato. Con il vantaggio sostanziale che oggi la competizione può svolgersi in modo del tutto pacifico. Inoltre, la possibilità concreta di perdere una porzione di territorio, di popolazione e di ricchezza, costituirebbe un limite oggettivo e virtuoso all’appetito dei governi centrali, alle pretese redistributive tra regioni ricche e regioni povere, insomma allo sfruttamento fiscale, almeno oltre certi limiti.
Dal punto di vista di chi ha a cuore la causa della libertà individuale e della democrazia, come diritti naturali che precedono il diritto positivo, un processo indipendentista può dunque essere legittimo, a patto però che mezzi ed esiti siano limpidamente democratici e liberali. Il caso catalano soddisfa questa inderogabile condizione?
Qui sta a mio avviso il peccato originale della classe politica indipendentista catalana: non hanno saputo, né probabilmente hanno voluto dar vita a un processo democratico, a prescindere dalla contestazione di aver violato la legalità costituzionale spagnola.
Il problema della illegalità del referendum del primo ottobre scorso va posto a mio avviso in termini diversi da come è stato trattato finora.
Lo strappo che rende antidemocratico il processo indipendentista catalano non è rispetto alla legalità di Madrid (la secessione, com’è stato notato, è per definizione illegale laddove non sia prevista dall’ordinamento), ma prima di tutto rispetto alla volontà di tutti i cittadini catalani. I catalani contrari all’indipendenza, infatti – poco più o poco meno della metà non importa ai fini del nostro discorso – non sarebbero comunque andati a votare perché, piaccia o meno, intendono rispettare una legalità, quella spagnola, in cui ancora credono e a cui hanno pieno diritto di credere. E questo è un problema politico con il quale gli indipendentisti avrebbero dovuto fare i conti. Ripeto: non per lealtà nei confronti di Madrid e della Corona, ma per il pieno rispetto della volontà dei loro concittadini, perché in gioco è la democraticità e quindi la credibilità dell’intero processo indipendentista. Il fatto che all’incirca la metà dei catalani non avrebbe comunque partecipato al voto ritenendo illegale il referendum non è un dettaglio trascurabile. Una forma di ricatto? Può darsi, ma se la società catalana è spaccata non te ne puoi fregare, se hai davvero a cuore la volontà dei tuoi concittadini e la democraticità del processo indipendentista.
A prescindere dai tentativi di boicottaggio da parte del governo di Madrid, il referendum non avrebbe comunque rispettato i requisiti minimi di correttezza, sicurezza e attendibilità delle operazioni di voto. Le modalità dubbie di raccolta dei dati personali per la formazione delle liste elettorali; la provenienza e la gestione del materiale elettorale; la selezione del personale ai seggi; il forte ruolo delle associazioni civiche indipendentiste; l’assenza di un reale dibattito pubblico. La democrazia si esercita nelle forme previste dalla legge, per questo un movimento di massa per quanto imponente non è di per sé interprete della volontà dei cittadini democraticamente espressa. Né il semplice atto di votare è sempre un esercizio di democrazia. Non quando, per esempio, avviene senza le garanzie e i requisiti necessari. Nessuno riconosce la validità del referendum di annessione della Crimea alla Russia, nonostante nessuno dubiti che la stragrande maggioranza della popolazione sia di etnia russa.
Molto discutibili anche le modalità di approvazione (a tre settimane dal voto!) da parte del Parlamento catalano delle due leggi di convocazione del referendum per l’indipendenza e sul periodo di transizione. Di nuovo, non tanto perché violano la legalità costituzionale spagnola e lo stesso statuto autonomo catalano, ma perché una normale maggioranza di governo si è arrogata il diritto di esercitare un potere di fatto costituente che avrebbe richiesto per lo meno un’approvazione a maggioranza qualificata.
Che fosse parte o meno di un preciso piano per “imporre l’indipendenza”, è per questi motivi che il referendum del primo ottobre è stato una forzatura, un “golpe” contro i cittadini catalani prim’ancora che contro la legalità costituzionale spagnola.
Il problema per gli indipendentisti, oltre naturalmente al pressappochismo, è che hanno dato vita a un processo non solo formalmente ma anche sostanzialmente antidemocratico. L’indipendentismo catalano sembra purtroppo ostaggio di un’idea di democrazia “popolare” e dei metodi massimalisti tipici delle sinistre comuniste e antagoniste. E questo non lascia preludere né mezzi né esiti democratici e liberali.