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Stati Uniti, le ragioni di una svolta in politica estera (analizzate dal Congresso americano)

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Gli Stati Uniti, in politica estera, devono continuare nel solco di quanto fatto negli ultimi 70 anni oppure farebbero bene a imprimere una svolta al proprio operato? Che il Congresso americano si ponga ufficialmente la domanda è già un po’ il segno dei tempi. Infatti il Congressional Research Service, l’equivalente del Centro studi del Parlamento italiano, ha ritenuto opportuno sottoporre ai congressmen il quesito – con le sue molteplici implicazioni – visto che “alcune dichiarazioni e azioni dell’amministrazione Trump hanno ingenerato una qualche incertezza sulle intenzioni dell’Amministrazione riguardo il futuro del ruolo degli Stati Uniti nel mondo”. I parlamentari eletti a Washington devono dunque essere informati sul dibattito in corso, che in fondo ruota attorno a due opzioni diverse: “Se gli Stati Uniti debbano continuare a giocare il ruolo internazionalista attivo che hanno giocato per gli ultimi 70 anni o se invece debbano adottare un ruolo più contenuto che riduca il coinvolgimento americano negli affari mondiali”. Gli estensori della ricerca del Congresso non si sbilanciano, ma scorrere l’elenco delle ragioni dei due campi ideologici avversi è già di per sé istruttivo.

LE RAGIONI DI CHI AUSPICA UN’AMERICA PIÙ ISOLAZIONISTA

Coloro che propugnano un ruolo meno interventista degli Stati Uniti sullo scacchiere internazionale partono innanzitutto dalla considerazione che “altre potenze mondiali, come la Cina, stanno diventando più potenti dal punto di vista economico, militare e politico, restringendo lo spazio che la potenza degli Stati Uniti ha avuto dalla Seconda Guerra mondiale”. “Queste altre potenze mondiali hanno le loro idee di ordine internazionale, e tali idee non coincidono in tutto e per tutto con l’attuale ordine internazionale liberale. Questo potrebbe essere vero in particolare rispetto alla Cina”. Washington – prosegue il ragionamento – dovrebbe prenderne atto e incorporare queste nuove idee nella formazione di un nuovo ordine internazionale. Inoltre, secondo la sintesi del Centro Studi del Congresso, l’interventismo americano dovrebbe essere ridotto perché in questo modo l’Eurasia – zona geografica che comprende Europa e Asia – potrebbe trovare da sé un equilibrio tale che prevenga l’emergere di paesi egemoni che poi si possono trasformare in pericoli esistenziali per l’America. Inoltre c’è un fattore economico-demografico di cui tenere conto: l’attivismo internazionale costa. “Tuttavia, considerate le proiezioni del deficit e del debito pubblico degli Stati Uniti, così come le altre priorità domestiche in termini di spesa e il potere di paesi euroasiatici come la Cina, gli Stati Uniti potrebbero non essere più in grado di sostenere lo sforzo necessario negli anni futuri”. Ancora: “Considerati i limiti delle risorse americane, gli Stati Uniti devono devolvere meno risorse alla difesa dell’ordine internazionale liberale e alla resistenza rispetto a egemoni regionali emergenti, e più risorse invece per i risolvere i problemi domestici”. Senza contare che l’interventismo degli ultimi 70 anni, dal punto di vista dei teorici di un maggiore isolazionismo, sono “un’aberrazione” rispetto alla tradizione di politica estera precedente, caratterizzata da un maggiore “restraint”. Infine, ci sono “i sondaggi”: “Gli americani spesso esprimono sostegno per un ruolo degli Stati Uniti che sia più contenuto in politica estera, specialmente su quei temi rispetto ai quali gli Stati Uniti dovrebbero agire come il poliziotto del pianeta, ma anche sul finanziamento americano ai programmi di assistenza internazionale, la partecipazione americana alle organizzazioni internazionali, e le spese militari per la difesa degli alleati”.

I VANTAGGI DELLA VECCHIA AMERICA INTERNAZIONALISTA

Gli estensori del rapporto destinato al Congresso passano poi a sintetizzare le ragioni di coloro che invece vorrebbero una politica estera americana che sia in continuità con quella degli ultimi 70 anni. Innanzitutto perché “l’ordine internazionale caratterizzato dall’apertura riflette gli interessi e i valori degli Stati Uniti”, mentre “un ordine internazionale che venga rinegoziato per incorporare idee di paesi autoritari come la Cina produrrebbe un mondo meno favorevole alla difesa e alla promozione degli interessi e dei valori americani”. Secondo altri fautori dell’internazionalismo americano, storicamente l’Eurasia non ha saputo regolare da sé l’emergere di Paesi egemoni su questa enorme area, arrivando di conseguenza a minacciare l’America. D’altra parte è indubbio che gli interventi americani in Eurasia, seppure non scevri da errori, abbiano segnato “un successo nel prevenire guerre tra le potenze più grandi, difendendo e promuovendo interessi e valori vitali per gli Stati Uniti”. Quanto agli insegnamenti della storia, “anche se una politica estera timida da parte degli Stati Uniti potrebbe essere stata appropriata per il XVIII e il XIX secolo, le esperienze più recenti (incluse la Prima Guerra mondiale, la Seconda Guerra mondiale e la Guerra fredda) dimostrano che una politica estera più contenuta sarebbe oggi più rischiosa e costosa nel lungo periodo. Una ritirata degli Stati Uniti dalla leadership globale potrebbe generare una instabilità che finirebbe per danneggiare gli interessi americani, o un vuoto che potrebbe essere riempito da altre grandi potenze come la Cina”.

Il dibattito è aperto e, come dimostra questo paper del Congresso americano, ha decine di implicazioni. Anche per noi europei.


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