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Vi racconto il Sogno cinese di Xi Jinping

A Pechino si sta celebrando il 19mo congresso del Partito Comunista Cinese (Pcc), che incoronerà Xi Jinping per la seconda volta segretario generale e presidente della Repubblica, cariche che potrebbe conservare anche per un inedito terzo mandato, che proietterebbe il potere di Xi fino al 2027. Ma chi è Xi, che molti definiscono il “nuovo Mao”, e che idea ha della Cina, seconda potenza economica del pianeta, autocrazia socialista in salsa orientale e potenziale guida alternativa del mondo rispetto agli Stati Uniti sempre più defilati, dopo l’era dell’Obama riluttante e con un Donald Trump schiacciato su posizioni nazionaliste?

L’Economist della settimana scorsa ha definito Xi “l’uomo più potente del mondo”. Lo è certamente nella rigida gerarchia cinese, nella quale Xi ha imposto il suo controllo accumulando svariate posizioni apicali e purgando, nella sua feroce campagna anti-corruzione, migliaia di dirigenti. Ma alla leadership di Xi guardano anche svariati Paesi, preoccupati per la deriva isolazionista degli Usa di Trump e desiderosi di entrare nelle grazie dell’Impero di mezzo, che elargisce somme colossali destinate a ambiziosi progetti infrastrutturali come la “One Belt, One Road Initiative”, le nuove vie della seta che collegheranno Asia, Medio Oriente ed Europa. Ma rimanere impigliati nelle trame globali di un regime a partito unico, che all’interno controlla ogni cosa e all’esterno proietta le sue mire revisioniste, può rappresentare una trappola, e certamente costituisce una sfida per l’ordine internazionale liberale cesellato dall’Occidente dopo la seconda guerra mondiale. È un dilemma di cui deve tenere conto anche il nostro Paese, che è uno dei terminali della nuova via della Seta e che coltiva relazioni quanto mai cordiali con la Cina, come dimostrato dalla lunga visita alcuni mesi fa del presidente Mattarella.

Di queste ed altre cose abbiamo parlato con il senatore Alessandro Maran, membro delle commissioni Affari Costituzionali e Politiche europee di Palazzo Madama, nonché presidente dell’Istituto di cultura cinese di Roma. Nella lunga conversazione con Formiche.net, Maran entra nei dettagli di una parabola di potere, quella di Xi Jinping, che coincide con quella di un Paese sempre più influente negli affari globali, dei quali è ormai un attivo “stakeholder”, ma anche un fattore destabilizzante, almeno nell’ottica di chi, in Occidente, ha a cuore i valori della democrazia e del liberalismo e guarda con preoccupazione all’accrescimento della potenza militare della Cina, che quest’anno ha aperto la sua prima base militare all’estero, a Gibuti.

Senatore Maran, il 19mo Congresso del Pcc incoronerà il presidente Xi per i prossimi cinque anni, ma già si parla di una deroga alle convenzioni che limitano a dieci anni il mandato del segretario, con una proiezione di potere al 2027. Xi, il cui pensiero sarà probabilmente iscritto nella Costituzione cinese, si impone come il nuovo Mao. Chi è Xi e cosa rappresenta per la seconda potenza mondiale?

Dai tempi di Deng Xiaoping (e forse dai tempi di Mao Zedong), nessun leader cinese ha mai inaugurato un Congresso nazionale con un così grande potere. Al punto che il diciannovesimo Congresso del Partito comunista cinese è più una incoronazione che una transizione istituzionale verso il secondo mandato. Potrebbe essere definito il Congresso di Xi. Da quando ha preso le redini del partito, Xi Jinping ha infatti accumulato un considerevole potere (è già stato soprannominato “il presidente di tutto”) e ci si aspetta che all’appuntamento congressuale, consolidi ulteriormente il proprio ruolo. L’idea che il sessantaquattrenne Xi si ritiri tranquillamente tra cinque anni mi sembra molto remota. Se otterrà dal Congresso la “canonizzazione ideologica” che lo pone allo stesso livello di Mao, sarà un chiaro segno che Xi vestirà i panni di Vladimir Putin e cercherà il prolungare il suo mandato oltre i limite del 2022. Specie se nessuno dei membri under 55 del Politburo emergerà come un suo possibile successore. Ma la concentrazione del potere nelle sue mani ha consentito a Xi di prendere decisioni impensabili per i suoi predecessori. Come Xi, anche altri leader, ad esempio, hanno riconosciuto che l’acerbo capitalismo cinese ha lasciato molte persone alle prese con un vuoto spirituale; e anche loro, hanno riconosciuto che la cultura e le credenze tradizionali hanno un ruolo nei fornire alla gente un sistema di valori. Ma Xi ha abbracciato la tradizione come nessun altro leader da quando l’ultimo imperatore ha abdicato nel 1912. La sua amministrazione ha sostenuto quasi tutte le forme della tradizione cinese, naturalmente nella misura in cui è utile al partito.

Uno degli slogan preferiti di Xi è “sogno cinese”, che non coincide affatto con quello americano. Come lo si potrebbe caratterizzare?

Come ha detto il segretario del partito aprendo il Congresso, la Cina progetta di diventare una società “moderatamente prospera” per il 2020, un paese socialista moderno per il 2035 ed un paese potente per il 2050. Molte delle realizzazioni di Xi e dei suoi piani per il futuro sono puntellati da una visione ideale: il declino della Cina che dura da 200 anni sta per finire, e la sua missione è quella di guidare una Cina severamente disciplinata di nuovo al centro della scena mondiale. Insomma, mentre Mao ha promosso la lotta di classe e Deng Xiaoping ha abbracciato un capitalismo pragmatico, la visione di Xi del ruolo del partito è centrata sul ripristino della grandezza della Cina, quella che chiama il “sogno cinese”, e attinge sia alla fervente dedizione dell’era di Mao, sia alle glorie della cultura tradizionale cinese che Mao ha cercato di distruggere. In pratica, si è tradotto in una campagna per imporre una più stretta disciplina nei ranghi del partito e repressione politica al di fuori del partito, compresa una più rigida censura sui media, inclusa Internet. Per gli stranieri, questo significa abituarsi ad una Cina più forte e più assertiva (ed anche più fragile) del passato. Se Xi avrà successo, la sua Cina potrebbe diventare un modello per i regimi autoritari “digitali” in giro per il mondo. Il suo fallimento potrebbe portare a riconsiderare se sia saggio cercare di condurre, a tappe forzate, un paese verso la modernità.

Nel suo discorso al congresso del Pcc, Xi ha parlato della Cina come di una “potenza mondiale”, che deve comportarsi come tale. Che ruolo nello specifico può ritagliarsi la Cina nel sistema internazionale, tenendo soprattutto conto del presunto ritiro dell’America di Trump dall’agone? Si consideri in questo senso che il mondo sembra guardare con speranza al ruolo di Pechino come campione della globalizzazione, come dimostra l’attenzione riservata al discorso di Xi a Davos lo scorso gennaio.

Il nuovo ruolo della Cina nella politica estera è difficile da eludere. Per decenni, Washington ha sollecitato la Cina a partecipare di più alle cose del mondo. Di solito, questo voleva dire chiedere alla Cina di aiutare a risolvere le crisi internazionali, e diventare uno “stakeholder”, nel gergo della politica estera. Una nozione che in molti in Cina vedevano come la richiesta di unirsi all’ordine disegnato dagli Usa. Ma ora, dopo anni in cui ha giocato un ruolo passivo negli affari mondiali, la Cina ha assunto un approccio più energico. Nello spazio vicino si è mossa aggressivamente per rafforzare le proprie rivendicazioni (storicamente dubbie) sulle acque internazionali e su isole lontane dalle sue coste ed ha cominciato ad attrarre nella sua orbita i piccoli paesi della sua periferia attraverso un ambizioso piano infrastrutturale denominato “One Belt, One Road Initiative”, puntellando i regimi che si stanno allontanando dalla democrazia in Thailandia, Birmania, Cambogia. In questo modo, la Cina sta diventando rapidamente l’impero commerciale più esteso al mondo. Per capirci, il piano Marshall, dopo la seconda guerra mondiale, ha fornito l’equivalente di 800 miliardi di dollari (attuali) in fondi per la ricostruzione dell’Europa. Ora la portata della “Belt and Road Initiative” è sbalorditiva. Le stime variano, ma più di 300 miliardi di dollari sono già stati spesi e la Cina programma di spendere altri 1.000 miliardi di dollari nei prossimi 10 anni. Un esempio: la città pakistana di Gwadar non era che uno sperduto villaggio di pescatori. Ora è uno dei pezzi forti della “Belt and Road Initiative” e Cina e Pakistan vogliono farla diventare una nuova Dubai in grado di ospitare 2 milioni di persone. Inoltre, già nel 2015 la Cina è diventata il più importante partner commerciale di 92 paesi (gli Stati Uniti lo sono di 52). E quel che più impressiona è la velocità con la quale ha raggiunto questi risultati. Negli anni ‘80 e ‘90 la Cina era il principale destinatario dei prestiti della Word Bank e della Asia Development Bank. Ora la Cina presta da sola ai paesi in via di sviluppo più di quanto riesca a fare la World Bank. Se la spinta geopolitica della Cina dovesse continuare, avrà un profondo impatto sul mondo, e non necessariamente negativo. Visto che l’Occidente non ha 1.000 miliardi da dedicare alle infrastrutture dei paesi in via di sviluppo in un nuovo “grande gioco”, la scelta più sensata potrebbe essere proprio quella di “cooptare” e “modellare” questo gigante. Se la “One Road, One Belt Initiative” avrà successo, la logistica correrà più veloce e paesi che erano tagliati fuori dai mercati mondiali saranno capaci di commerciare di più. Il che potrebbe ridurre i conflitti tra Stati. Il presidente Xi ha infatti ripetuto, nel corso delle sue visite negli Stati Uniti nel 2015 e nel 2017, e anche a Davos, che la Cina vuole un sistema internazionale più equo, ma non vuole distruggere l’ordine internazionale. E il mondo avrà solo da guadagnare se incoraggerà la Cina ad accrescere la tutela del lavoro, dei diritti umani e gli standard ambientali dei loro progetti.

Secondo le stime di Bloomberg, la Cina quest’anno crescerà del 6,4%, il livello più basso dell’ultimo quarto di secolo, e le proiezioni dei prossimi due anni sono ancora più basse. Come reagirà il Partito, considerando che la crescita economica è l’ingrediente essenziale del suo patto coi cittadini perché rimanga in piedi il Moloch dello stato autoritario?

Senza dubbio il futuro sarà caratterizzato da una crescita economica più modesta. I leader della Cina vogliono i benefici di una economia moderna, ma non sono disposti a creare uno dei prerequisiti: una società più aperta. Certo, una più aggressiva politica estera potrebbe fornire loro una nuova sorgente di legittimazione politica, mettendo però a rischio le opportunità di commercio e di investimento. Il modo in cui i leader cinesi gestiranno questo dilemma sarà la cosa più importante per la Cina e per il mondo dei prossimi anni. Nel suo discorso Xi si è ripetutamente riferito alle tensioni sociali che originano dalla disuguaglianza economica, dall’inquinamento, dall’inadeguato accesso alla sanità, alla scuola e alle abitazioni. I leader del partito sono consapevoli del pericolo, e Xi in modo particolare, ma per lui questa linea dura, questo stile centralizzato di governo è la soluzione al problema e deve essere consolidato. Lo scenario trionfante del Congresso non deve trarre in inganno: Xi resta guidato dalla paura che il governo comunista possa collassare in Cina così come è accaduto in Unione Sovietica, a meno che il partito non riesca a mantenere un saldo controllo su una società sempre più ricca e più diversa, che ora comprende più di un terzo dei miliardari del mondo. Per fare questo, Xi ha stretto il controllo sui possibili centri alternativi di potere, compresi quelli dei miliardari e dei loro affari, Internet, le forze armate, e le altre articolazioni del potere statale e gli altri 89 milioni di iscritti al partito. Infatti, il discorso di apertura di mercoledì mattina è suonato come un severo monito rivolto al partito: non si può abbassare la guardia. Trattare lo sviluppo e la sicurezza insieme, restando vigili in tempo di pace, resta un punto fermo. E quando Xi si riferisce alla necessità di riforme, queste non hanno niente a che vedere con le precedenti liberalizzazioni economiche che Deng e gli altri leader hanno approvato negli anni ‘80 e ‘90. Allora il partito aveva abbracciato le forze di mercato e il capitalismo, ritirandosi da molti settori dell’economia. La “riforma” di Xi va nella direzione opposta: accrescere il controllo del partito.

Parafrasando Graham Allison, Cina e Stati Uniti sono destinati allo scontro militare? Come evitare la trappola di Tucidide?

Per dirla con Shakespeare, “non è nelle stelle che è conservato il nostro destino, ma in noi stessi”. Pochissimo nella storia è inevitabile. E a fare la differenza (e la storia) sono le scelte dei governi, delle organizzazioni e della gente. Lo stesso Allison, nel suo libro, sostiene che i leader americani dovrebbero concentrarsi su quattro idee centrali: chiarire i loro interessi vitali, comprendere che cosa la Cina sta cercando di fare, darsi una strategia e fare delle sfide interne il punto centrale. Anche la Cina, infatti, ha un sacco di problemi interni. La tecnologia sta rendendo il suo sistema di governo obsoleto. E non c’è modo per burocrati di Pechino di “governare” i giovani con gli smartphone delle metropoli. C’è chi, ad esempio, identifica un insieme di handicap che la Cina non riuscirà a superare facilmente: l’assenza dello stato di diritto, il controllo eccessivo dal centro, abitudini culturali che limitano l’immaginazione e la creatività, un linguaggio che forma il pensiero attraverso epigrammi e 4.000 anni di testi che suggeriscono che ogni cosa che vale la pena dire è stata già detta e, ovviamente, detta meglio, dagli scrittori precedenti (ne sappiamo qualcosa), e l’incapacità di attrarre ed assimilare i talenti che provengono da altre società del mondo. E forse, un leader forte e il nazionalismo centrato sul recupero dei valori (e delle virtù) tradizionali di Xi, potrebbe aiutare a restaurare l’integrità del “sistema operativo” cinese sfiancato dal materialismo. E per estendere la metafora digitale, entrambi i rivali dovrebbero riconsiderare l’idoneità delle loro app per il 21º secolo.

Il mondo guarda con speranza e preoccupazione al ruolo cinese nella crisi nucleare coreana. La Cina eserciterà la massima pressione su Pyongyang? O manterrà una posizione ambigua e riluttante, considerata anche l’indesiderabilità ai suoi occhi dello scenario di una caduta del regime di Kim e di una possibile riunificazione della penisola coreana?

Il governo della Corea del Nord è certamente un vassallo di Pechino, ma è un vassallo scomodo per i cinesi, che spesso esce dal seminato e assume posizioni difficili da gestire. Ma Pechino ha ancora interessi a mantenerlo in piedi. Come spiega proprio su Formiche.net il generale Camporini, uno dei timori che i cinesi hanno è un collasso incontrollato del regime, che metterebbe 26 milioni di disperati nella posizione di chiedere rifugio appena oltre confine, creando una destabilizzazione all’interno della regione meridionale cinese. Ma rispetto al passato qualcosa è cambiato. Vedremo.

Come sono oggi i rapporti tra Italia e Cina? Quale il ruolo del nostro paese nella proiezione economica di Pechino, anche in funzione della One Belt, One Road Initiative?

Gli investimenti cinesi sul territorio italiano sono aumentati considerevolmente negli ultimi anni, in concomitanza con il lancio della nuova Via della Seta. L’Italia resta, infatti, uno dei terminali più significativi della proiezione cinese verso la regione euro-mediterranea, un orizzonte strategico per Pechino sia in chiave politica, sia in termini economico-commerciali e di sicurezza (anzitutto energetica), anche alla luce possibili aggiustamenti della politica commerciale americana in senso protezionista. E sarebbe il caso di approfittarne. Anche perché, come sostiene Parag Khanna, stiamo costruendo un nuovo ordine mondiale che muove da una struttura territoriale ad una relazionale caratterizzata dalla connettività. E, appunto, “la competizione per la connettività sarà la corsa agli armamenti del XXI secolo”.



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