La delegittimazione, per lotte politiche interne, del presidente della Bce l’italiano Mario Draghi di sicuro non aumenterà la nostra autorevolezza politica internazionale. La candidatura e la scelta di figure così apicali a livello mondiale non dovrebbe essere messa a rischio per ragioni di calcolo politico. Eppure il tema dell’autorevolezza di una nazione è tutt’altro che banale. Joseph Nye coniò il concetto di soft power, circa ventisette anni fa, per descrivere quel potere condiviso (soft) che nel nuovo millennio sarebbe stato più efficace del potere imposto (hard). Quanto più un Paese fosse stato abile nell’erigere ponti, incoraggiare relazioni e costruire network tanto più avrebbe influenzato la politica e l’agenda internazionale, guadagnando credibilità e autorevolezza. In sintesi, colui che domina non è necessariamente il più forte. Del soft power si è continuato a discutere in tutti questi anni collegandolo da un lato alla progressiva erosione e devoluzione del potere dei governi e dall’altro al cambiamento che la componente digitale ha apportato all’esercizio stesso del potere e del consenso.
Molto interessante, in questo senso, è il contributo che i colleghi di Portland, l’agenzia di comunicazione strategica fondata da Tim Allan ex portavoce di Tony Blair, forniscono con il loro rapporto The Soft Power 30. Si tratta di un’analisi che ha l’ambizione di individuare un indice per misurare trenta Paesi in termini di soft power. Lo stesso Nye considera quest’analisi il miglior riferimento sul quale lavorare. Il rapporto misura sia con dati quantitativi che qualitativi sei sub-indici. Per dare alcuni esempi, l’indice Education valuta, Paese per Paese, non soltanto la qualità della formazione ma anche la capacità di attrarre studenti stranieri o di facilitarne gli scambi. L’indice Digital, valuta quanto le tecnologie digitali siano utilizzate nelle interazioni sociali. Si tratta, quindi, di un modello complesso e articolato, in fase di continuo perfezionamento. L’idea di fondo è che, quanto più i sei sub-indici sono sviluppati in un determinato Paese tanto più quel Paese aumenterà il proprio soft power e quindi la sua capacità di influenza a livello globale. Nell’ultimo rapporto l’Italia è stabile al tredicesimo posto, mentre Francia, UK e USA occupano nell’ordine le prime posizioni. La Francia, in precedenza quarta, rappresenta una sorpresa dovuta a diversi fattori tra i quali l’elezione di Macron e la sconfitta del Front National ma soprattutto la capacità dei francesi di affrontare e gestire gli attacchi terroristici. È interessante notare che il Regno Unito, nonostante la Brexit, sia stabile al secondo posto e in tutti gli indici, il sistema britannico appare solido e molto ben organizzato. Questo risultato ci dice anche che l’essere o no in Europa non è, di per sé, indicativo della capacità e del ruolo d’influenza di un Paese.
Il rapporto fornisce delle indicazioni politiche importanti all’Italia evidenziando che la nostra politica dovrebbe puntare molto di più sulla qualità dell’istruzione, sul rafforzamento della nostra identità culturale e sulla diffusione del digitale. Purtroppo nessuna di queste è tra le priorità della campagna elettorale che incombe. In particolare, il contributo che le tecnologie digitali stanno dando alla crescita del soft power è rilevante. La diffusione multidirezionale dell’esercizio del potere trova, infatti, la sua realizzazione concreta attraverso l’uso delle piattaforme digitali che costituiscono un formidabile strumento di creazione del consenso. L’impressione però è che la nostra classe politica, e non solo, abbia male interpretato le possibilità e l’uso del digitale nella comunicazione.
Come ha fatto notare Claudio Paolucci dell’Università di Bologna, oggi si scambia la visibilità per autorevolezza, un numero alto di followers o di retweet come sinonimo di qualità del messaggio o della fonte. L’elemento quantitativo della comunicazione prevale su quello qualitativo, persino su quello della verità fattuale. Possiamo, quindi, fare tutti i proclami sul web e avere le migliori intenzioni ma se continuiamo a essere tra i Paesi più corrotti al mondo, se restiamo penultimi nel numero di laureati in Europa o se continuiamo a essere poco innovativi, non saranno certo le frasi a effetto o i like sulle pagine di Facebook ad aumentare la nostra capacità d’influenza a livello internazionale. Per queste ragioni, sarà certamente interessante discutere del nostro Indice di soft power, e quindi del posizionamento del Paese, presentando il rapporto Portland anche in Italia il prossimo anno. Forse potremo capire anche come le nostre vicende politiche, le crisi bancarie, l’immagine di Roma e persino la mancata qualificazione ai mondiali di calcio avranno influito sul nostro soft power.