Da qualche settimana i riflettori anche dei media “seri”, come il Washington Post, erano puntati sui Clinton e sui Democratici per il caso Uranium One e per il dossier Steele. Due casi di collusione con la Russia che sollevano inquietanti interrogativi anche sulla condotta dell’FBI guidata prima da Mueller, poi da Comey, tanto da indurre il Wall Street Journal a considerare opportuna la ricusazione di Mueller dall’inchiesta Russiagate.
Ma da lunedì, dall’incriminazione dell’ex capo della campagna Trump, Paul Manafort, e del suo socio Rick Gates, immancabilmente anticipata alla stampa con qualche giorno d’anticipo dal solito “leak”, l’attenzione è tornata proprio sull’inchiesta Russiagate guidata dal procuratore speciale Mueller.
Anche se chiaramente il presidente Trump è “furioso” per quella che continua a definire “caccia alle streghe”, e per la distrazione invece sulle collusioni con i russi di Hillary e dei Democratici, viste le aspettative il bilancio di questi giorni è tutto sommato positivo per la Casa Bianca. Proverò a spiegare perché.
“Molto rumore per nulla”, ha scritto Andrew McCarthy su National Review. Dei dodici capi di imputazione contro Manafort la “cospirazione contro gli Stati Uniti” è quello di maggior impatto, penale e mediatico. Ecco, avranno pensato molti, è accusato di aver cospirato con i russi per far eleggere Donald Trump. L’accusa-madre che tutti aspettavano. Niente di tutto questo. Le accuse principali in capo a Manafort e Gates sono di aver cospirato per nascondere al governo compensi per circa 75 milioni di dollari derivanti dalla loro attività di lobbisti non registrati per il governo ucraino, guidato allora (stiamo parlando del periodo tra il 2006 e il 2014) dal presidente filorusso Yanukovich, e di associazione a delinquere finalizzata al riciclaggio di denaro.
La cosiddetta “cospirazione contro gli Stati Uniti” consiste nella mancata presentazione al Dipartimento del Tesoro dei moduli previsti dal Bank Secrecy Act, che impone agli americani di presentare un rapporto sui propri conti esteri ogni anno e ogni qual volta i fondi superino un certo ammontare, e nella mancata indicazione di tali conti esteri nelle annuali dichiarazioni dei redditi. Inoltre, sono accusati di non essersi registrati come lobbisti per un governo straniero tra il 2008 e il 2014.
Insomma, dopo cinque mesi di indagini, nessuna delle accuse mosse a Manafort e Gates ha a che fare con le presunte ingerenze russe nella campagna del 2016. Non solo nessuna accusa riguardante un qualche coordinamento tra la Russia e i collaboratori di Trump, ma nemmeno alcun riferimento a quella campagna.
Dal punto di vista di Paul Manafort, nei capi d’accusa “potrebbe esserci meno di quanto appaia”, osserva McCarthy. Non sembra tanto una grave accusa di “cospirazione contro gli Stati Uniti”, quanto un sospetto caso di violazioni degli obblighi di dichiarazione e movimenti di denaro che mai sarebbe stato perseguito se Manafort non avesse attirato su di sé l’attenzione guidando la campagna Trump per qualche mese. Per quanto riguarda il riciclaggio, l’accusa dovrà provare oltre ogni ragionevole dubbio che i milioni di dollari non dichiarati sono il frutto di attività illegali (e ricevere compensi per attività di consulenza politica da un’entità straniera non lo è, per quanto sia stato inopportuno riceverli dal governo ucraino filorusso) e che i due imputati li hanno spostati con lo specifico intento di nascondere la loro esistenza ed evitare di registrarsi come lobbisti per un governo straniero.
Dal punto di vista della Casa Bianca, il presidente Trump può affermare che il procuratore speciale Mueller non ha ancora alcun caso di “collusione” da perseguire, continuando a dipingersi come vittima di una “caccia alle streghe”.
Ma è possibile, come molti avvertono, che siamo solo all’inizio, che ci saranno altre incriminazioni. E che il procuratore speciale Mueller stia cercando di usare le decine di anni di condanna che Manafort e Gates rischiano come “argomento” per spremerli, per farli “cantare”, come si dice in gergo. Se così stanno le cose, tuttavia, vuol dire anche che fino ad oggi ha poco o nulla in mano su quello che dovrebbe essere l’oggetto della sua indagine, ovvero la collusione campagna Trump-Russia per influenzare o truccare le presidenziali del 2016, o almeno una qualche ingerenza russa con la complicità di qualche collaboratore di Trump.
Il procuratore speciale è “molto zelante” nel perseguire gli uomini del presidente Trump, ha notato il celebre avvocato americano Alan Dershowitz, certo non un trumpiano. “E’ una tattica molto pericolosa”, vicina all’estorsione, quella di usare la legge per mettere sotto pressione i collaboratori di Trump nella speranza di trovare del marcio nella campagna. Sta usando la legge per “spremere” le persone e “farle cantare”. Il problema, avverte Dershowitz, è che “le persone non solo cantano, ma compongono. Inventano storie, le esagerano perché sanno che migliore è la testimonianza, più dolce è l’accordo”.
Siamo solo all’inizio, vero. Ma l’inizio è in realtà la primavera/estate del 2016, quando l’amministrazione Obama avviò un’indagine di “contro-intelligence” sulla campagna Trump, forse sulla base di un falso dossier compilato da fonti russe pagate con i soldi della campagna Clinton e del Comitato democratico.
Nell’attesa delle decisive rivelazioni dei due imputati, se decideranno di collaborare, qualcuno comincia però a sollevare qualche interrogativo su questo modo di procedere, sulla stessa giurisdizione del procuratore speciale. In uno stato di diritto il sistema giudiziario si attiva in presenza di un crimine evidente e di fondati indizi di colpevolezza. Non individua una persona o un gruppo di persone per poi cercare “a strascico” un reato, di qualunque genere, per poterle incriminare. Questo è esattamente quello che si intende per “caccia alle streghe”. Qual è il crimine su cui Mueller sta investigando? Chi sono i sospettati? Quali i fondati indizi di colpevolezza? Dopo i capi di imputazione nei confronti di Manafort e Gates è lecito porsi queste domande. Che fine ha fatto il Russiagate? Quali sono, se ci sono, i confini del mandato del procuratore speciale?
Vista la totale assenza di “Russiagate”, di collusione con i russi, nei capi d’accusa contro Manafort e Gates, gli accusatori di Trump e i media si stanno concentrando sul caso di George Papadopoulos. Al contrario dell’incriminazione dei primi, il caso di quest’ultimo non è stato anticipato alla stampa, probabilmente per non mettere in pre-allarme i suoi contatti. Papadopoulos, un consigliere della campagna Trump, ha firmato una dichiarazione di colpevolezza, ammettendo di aver mentito all’FBI sui suoi contatti e incontri con intermediari russi durante la campagna. Qui almeno non siamo fuori tema. Almeno si parla della campagna del 2016 e delle presunte interferenze russe in essa.
Peccato che anche il caso Papadopoulos sembrerebbe più scagionare che coinvolgere il presidente Trump. Papadopoulos non è stato accusato di aver avuto contatti illeciti con i russi, ma di aver mentito all’FBI. Questo perché in realtà non esiste un reato di “collusione”. Si tratta di un altro aspetto importante da chiarire quando parliamo di Russiagate. Perché la collusione sia penalmente rilevante dev’essere finalizzata a commettere uno o più crimini. In tal caso, si tratterebbe di cospirazione, di associazione a delinquere. Per esempio, se la campagna Trump avesse orchestrato con i russi l’hackeraggio dei server del Comitato democratico. Contatti finalizzati, per esempio, a migliorare i rapporti tra i due Paesi, o anche a ottenere materiale scottante su Hillary Clinton, sarebbero certamente politicamente inopportuni ma non perseguibili penalmente. Dal punto di vista penale, “collusione” non significa nulla. Naturalmente, dal punto di vista politico, una grave collusione con una potenza straniera ostile può portare all’impeachment, dal momento che la procedura dipende da una maggioranza parlamentare.
Papadopoulos era un consigliere marginale della campagna, non retribuito, quindi un volontario, che ha tentato apparentemente invano di suscitare interesse nei suoi superiori riguardo i suoi contatti russi, le loro richieste di organizzare incontri con Trump e persino la disponibilità da parte di uno dei suoi interlocutori, un professore che affermava di essere vicino ad ambienti governativi russi, a condividere informazioni compromettenti su Hillary Clinton. Nello specifico, “migliaia di email”. Ma le email di cui si parla potrebbero non essere, come alcuni suggeriscono, quelle ottenute dall’hackeraggio dei server del Comitato democratico, di cui le intelligence americane incolpano apertamente i servizi segreti russi (pur non avendo potuto esaminare fisicamente i server hackerati), bensì quelle del ben noto caso emailgate.
Papadopoulos ha collaborato con gli inquirenti, quindi è possibile che la sua testimonianza chiami in causa altri membri della campagna Trump, ma le sue iniziative non sembrano aver fatto breccia ai vertici della campagna. E a rigor di logica il presunto tentativo da parte russa di aprire tramite lui un canale di comunicazione con Donald Trump contraddice la tesi secondo cui Trump e il suo team avessero una qualche relazione collusiva con i russi. Se già fosse esistita, e nella primavera/estate 2016 avrebbe dovuto essere in piedi seguendo l’ipotesi complottista, non sarebbe stato necessario cercare di arrivare a Trump tramite lo sconosciuto Papadopoulos.
Tra l’altro, la dichiarazione di colpevolezza di Papadopoulos contiene a pagina 8 un’interessante nota dell’accusa. In una delle email (maggio 2016) il consigliere spiega a uno dei suoi superiori della campagna che funzionari russi (incluso Putin) vorrebbero incontrare Trump e “hanno contattato me per discuterne”, ma ecco la nota di Mueller:
The government notes that the official forwarded defendant Papadopoulos’s email to another Campaign official (without including defendant Papadopoulos) and stated: “Let[‘]s discuss. We need someone to communicate that DT is not doing these trips. It should be someone low level in the campaign so as not to send any signal“.
Insomma, Trump non ha alcuna intenzione di incontrare i russi e se ci saranno incontri, dovranno essere di basso livello, in modo che i russi non possano pensare che Trump stia prendendo impegni o accordi.
Un altro interrogativo incombe sull’inchiesta condotta da Mueller. Se le migliaia di email offerte a Papadopoulos non sono mai arrivate, al contrario il dossier-bufala su Trump, compilato da fonti russe e pagato dalla campagna Clinton e dal Comitato democratico, come ormai è stato confermato, è circolato per mesi. Se il Russiagate riguarda le interferenze russe nelle presidenziali del 2016, perché un ramo dell’inchiesta non si occupa del dossier Steele? Se ne sta occupando la Commissione intelligence della Camera guidata dal deputato David Nunes e non è escluso che arrivino novità già nei prossimi giorni.
Il paradosso è che per oltre un anno i Democratici hanno accusato la campagna Trump di collusione con la Russia, eppure è emersa la collusione, volontaria o involontaria, della campagna Clinton con fonti russe legate al Cremlino nel fabbricare un falso dossier (“volgare e non verificato”, secondo lo stesso ex direttore dell’FBI James Comey), per affondare la campagna di Donald Trump e, in caso di insuccesso, azzoppare la sua presidenza.
Molto denaro è partito dalla campagna Clinton e dal Comitato democratico ed è finito nelle tasche delle fonti russe del dossier Steele. Ma il sospetto, di quelli che dovrebbero far tremare le gambe a qualsiasi sincero democratico, è che quel dossier sia stato usato dall’amministrazione Obama per avviare l’indagine di contro-intelligence sulla campagna Trump e/o addirittura dall’FBI per ottenere da una corte FISA il mandato a mettere sotto sorveglianza i suoi collaboratori. Come può dunque un’indagine sulle possibili interferenze russe nelle presidenziali non occuparsi del dossier Steele, che ha avuto senz’altro un maggior impatto sulla campagna, e nel processo di transizione dopo l’8 novembre, rispetto all’hackeraggio dei server del Comitato democratico? Semplice, significherebbe scoperchiare la pentola anche sulle condotte dell’FBI. E Mueller, come ha ricordato Dershowitz, ha tutto l’interesse a tutelare l’FBI e non vuole sentir parlare di una cattiva condotta dell’agenzia.
Né ci si può aspettare da Mueller che indaghi sulle “collusioni” tra l’amministrazione Obama, di cui faceva parte l’allora segretario di Stato Hillary Clinton, e la Russia nell’operazione Rosatom-Uranium One, grazie alla quale Mosca ha acquisito anche il controllo di un quinto delle capacità minerarie Usa di uranio. Anche perché all’epoca dei fatti, nel 2010, era proprio Mueller il direttore dell’FBI e si guardò bene dall’incriminare il direttore della controllata americana di Rosatom nonostante avesse le prove che fosse a capo di una vasta attività criminale ai danni proprio del settore nucleare americano.